Pagliara: «L’architettura? Anima alla ricerca di corpo»

di Fabrizio Coscia
Mercoledì 22 Febbraio 2017, 00:35
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Uomini e donne che passeggiano, attraversano una strada, restano in attesa, si baciano, si guardano intorno: sullo sfondo si intravedono monumenti, colonne, statue, edifici famosi, che restano però a margine, come un fondale discreto che lascia in primo piano, come protagoniste assolute, le persone nella loro quotidianità. A raccontare questa «marginalità» dell’architettura, in molti luoghi del mondo, da Vienna ad Amsterdam, dalla Grecia all’America, dall’Egitto all’Estremo Oriente, da Chicago a New York, è paradossalmente proprio un architetto dalla lunga carriera alle spalle, come Nicola Pagliara. E lo fa con una mostra di oltre cento fotografie, selezionate tra migliaia scattate lungo una vita passata in giro per il mondo a caccia di immagini. La mostra, intitolata «140 scatti - A margine del Grand Tour», si inaugura alle 18.30 alla galleria Lia Rumma, e nasce dall’abitudine che Pagliara ha sempre avuto di inseguire la storia dell’architettura non sui libri ma «en plein air», per presentarla poi ai suoi studenti come «materiale di prima mano». «Durante questa ricerca», spiega lui, «mi sono preso ogni tanto una licenza poetica legata alla mia vecchia passione per le foto d’arte, dove una volta tanto il soggetto, il monumento appariva sullo sfondo, lasciando il posto ad una quotidianità che poco aveva a che fare con l’architettura. Ne è nata una raccolta che si riferisce a questi momenti più umani che oggi a distanza di anni per me hanno acquistato un grande valore».

Professor Pagliara, questa architettura «a margine» che emerge dalle sue foto, dove la presenza umana è predominante, può essere anche una chiave di lettura per la sua architettura?
«Ora che mi ci fa pensare, potrebbe essere proprio così. In effetti io ho sempre fatto un’architettura delle persone. Non riesco a immaginare niente che non abbia come soggetto l’uomo. L’architettura, del resto, è una creazione che l’uomo, fin dalla preistoria, ha realizzato con lo scopo di proteggersi, di coprirsi, di abitare un luogo sicuro. Ecco, ho sempre pensato che l’architettura dovesse essere prima di tutto abitata dall’uomo: tutto quello che ho fatto, l’ho fatto sempre per le persone».

Che cosa l’ha spinta a scegliere di fare l’architetto come professione?
«Potevo scegliere di fare l’ingegnere, il medico, il dentista, ma mi sono lasciato catturare dal fascino dell’architettura, che mi ha portato in giro per il mondo, strappandomi a un destino sedentario».

In cosa consiste questo fascino?
«L’architettura è un’anima a cui bisogna dare un corpo. Per questo il progetto architettonico è come un bambino che occorre seguire in ogni fase della sua crescita, è come un paziente malato che va curato passo dopo passo. Richiede una dedizione assoluta, almeno io l’ho sempre inteso così, dedicando a questo lavoro tutta la mia vita».

La sua passione per l’architettura è cresciuta di pari passo con quella per la fotografia. 
«La fotografia è sempre stata una mia passione: ho iniziato a fotografare prima con una minuscola Comet, poi una vecchia macchina a soffietto, una Voigtländer che avevo recuperato fra gli arnesi dimenticati da mio padre in un armadio, insieme alla lama del rasoio a mano e allo scatolone dei colletti inamidati con il loro bottoncino d’oro. Poi sono passato alla Rolleyflex e a una Hassemblad 500. Ho iniziato a 20 anni a girare il mondo avendo come unico scopo quello di rendermi conto dal vivo del mio rapporto con la forma e la dimensione degli edifici. Iniziai a guardare esterrefatto e a sognare se mai un giorno sarei stato capace di tanta meraviglia. Di fronte a quei monumenti confesso di aver trascorso anche una notte intera a guardare e ragionare. Poi, quando ho iniziato a insegnare all’università, questo “guardare dal vivo” mi ha permesso di fare delle lezioni molto più affascinanti, proiettando diapositive che tenevano gli studenti incollati alle sedie per ore di seguito».

Che cosa le ha insegnato la fotografia come architetto?
«Il modo di guardare. Lo sguardo in architettura è tutto: imparare con gli occhi le proporzioni delle cose, il modo in cui sono inserite nello spazio. In fondo l’architettura è tutta lì: nella qualità dello spazio e nel suo rapporto con il tempo. Lo aveva capito bene Siegfried Giedion, autore del fondamentale saggio Spazio, tempo e architettura, che lessi appena mi iscrissi all’università, nel 1952».

E come vede l’architettura oggi?
«Molto male. Ha perso l’anima. È un’architettura dei segni, senza contenuti, senza iconografia, manca completamente di significato, benché sia formalmente ineccepibile. La vera architettura deve essere come la scrittura di Proust: deve saper leggere dentro l’uomo; evocare profumi, ricordi, mondi; deve procurare un’emozione interiore molto forte».

Non salverebbe nessuno tra i contemporanei?
«Salverei solo Renzo Piano. Il resto, francamente, non mi interessa».
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