Perché è giusto parlare di nazionalizzazione delle mafie

di ​Isaia Sales
Giovedì 23 Novembre 2017, 22:42
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A proposito di mafie, è giusto dire che siamo in costante progresso verso il peggio? O ci sono delle novità intervenute nel corso degli ultimi decenni che ci fanno ben sperare sulla possibilità di venire a capo di questo aspetto della storia nazionale che ci accompagna da almeno due secoli? E’ attorno a queste domande, e a tante altre ancora, che si stanno svolgendo a Milano gli Stati generali della lotta alle mafie, voluti lodevolmente dal ministro della giustizia Andrea Orlando. Che sintesi, insomma, si può fare degli ultimi decenni di lotta alle mafie? Forse la più vicina alla realtà può essere questa: le mafie non hanno vinto, ma neanche lo Stato italiano le ha ancora definitivamente sconfitte. Mettiamola così: se la prima fase del rapporto dello Stato italiano con le mafie si è caratterizza per una sostanziale convivenza-utilizzazione (grosso modo dall’Unità d’Italia fino agli anni settanta del Novecento), se poi la seconda fase è stata invece caratterizzata da una strategia di contrasto- contenimento (perché quando si opera solo sul piano penale e della repressione non si può che ottenere una semplice “riduzione dei danni”), non si è ancora completamente dispiegata la terza fase, quella cioè che punta diritto al definitivo annientamento delle mafie. Al punto da suscitare due domande imprescindibili: si può fare? si vuole farlo? 
La storia degli ultimi anni ci dice che uno Stato ben motivato in tutte le sue istituzioni e in tutti i suoi rappresentanti può farcela a sconfiggere le mafie in un ragionevole lasso di tempo, ma diventa più complicato rispondere alla domanda se tutti lo vogliono fare. 
Quali sono, innanzitutto, i nuovi scenari in cui si colloca la lotta alle mafie?
1) È almeno da due decenni che si è verificato un cambio di gerarchia nelle criminalità di tipo mafioso presenti in Italia. La ‘ndrangheta e la camorra hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla seconda metà degli anni novanta del Novecento. Ciò è stato anche il risultato della stagione stragista voluta da Riina, che ha obbligato lo Stato ad elevare e affinare l’azione di duro contrasto rispetto a quella di semplice contenimento. Cosa nostra in quegli anni ha perso il controllo del mercato nazionale e internazionale di sostanze stupefacenti (a cui con grandi difficoltà sta provando a riaffacciarsi) a vantaggio dei boss calabresi e napoletani.
2) Ed è almeno da due decenni che si è completata un’azione di colonizzazione (e poi di radicamento) delle mafie meridionali nel Centro-Nord del Paese e all’estero. Una fase accompagnata da una assurda negazione da parte delle classi dirigenti politiche e imprenditoriali coinvolte. Ciò obbliga a fare i conti con domande più complesse rispetto alla semplificazione razzista che identificava le mafie con la mentalità e il contesto meridionali. Ora, ancora di più, le mafie sono un problema dell’Italia e non solo del suo Sud. Ma non ancora questa “nazionalizzazione” delle mafie è diventato problema centrale di tutta la nazione e priorità dei governi. Lo spostarsi delle mafie oltre la linea storica dei vecchi insediamenti presenta alcune differenze sostanziali: se la ‘ndrangheta trapianta il suo modello criminale nei nuovi territori, partendo però dalle zone di emigrazione calabrese e da lì estende il suo raggio d’azione verso il mondo politico e imprenditoriale locale, la camorra invece non esporta il modello organizzativo con cui opera a Napoli e in Campania ma si colloca nei posti strategici della produzione e delle rotte del narcotraffico, di altri numerosi commerci illegali o dove è possibile fare proficui investimenti, senza seguire necessariamente le rotte dell’emigrazione napoletana e campana. I camorristi si spostano, gli ‘ndranghetisti si radicano. 
Ma resta una domanda: come mai non c’è stata un’azione di rigetto pari alla storica tradizione civica e democratica dei nuovi territori interessati? Nel Centro-Nord i mafiosi raramente hanno la necessità di ricorrere alle pistole, impegnati più a fare affari che a presidiare quartieri, vicoli o strade come fanno al Sud. Va sempre ricordato che i mafiosi non sono un esercito straniero di occupazione, che si legittima solo con la forza della violenza. Semplicemente i mafiosi meridionali si stanno dimostrando funzionali ad alcune esigenze dell’economia centro-settentrionale. Il consenso lo ricevono dagli operatori di mercato non dal controllo del territorio. È sulla facilità con cui si sono aperte queste ampie brecce di consenso che bisognerebbe interrogarsi di più. Al Nord più che al Sud. A Milano più che a Napoli. E anche a Bruxelles.
3) Economie e mafie si stanno sempre più intrecciando. Ciò è dovuto sia agli altissimi profitti derivanti dal quasi monopolio del traffico delle droghe (mai nel corso della storia organizzazioni criminali hanno potuto godere di profitti così sproporzionati rispetto ai costi di produzione e di commercializzazione) sia al funzionamento opaco dell’economia. A volte il ricorso ai mafiosi negli affari, al raggiro delle norme e al supporto illegale, comincia a presentarsi come una risposta strutturale alle esigenze di una parte dell’economia di mercato. Ci sono degli imprenditori (in campi sempre più estesi) che beneficiano delle attività mafiose per la loro competitività. L’economia illegale e criminale è contro le leggi dello Stato ma non contro quelle di mercato. Si può fare economia e fare circolare la ricchezza anche fuori o addirittura contro la legge, perché si è fatto sempre più fumoso o poroso il confine tra legale e illegale. Soprattutto perché il mondo del crimine usa gli stessi territori e gli stessi mezzi giuridico-legali dei protagonisti dell’economia finanziaria. Come si è visto nel caso dei paradisi fiscali. Mai la droga è stata così diffusa, mai i criminali così ricchi, mai l’economia e la finanza così intrecciate con il capitalismo criminale.
Il convegno di Milano, certo, non potrà dare tutte le risposte e delineare nei dettagli tutte le strategie per fare fronte a questi tre scenari completamente diversi rispetto al recente passato. Ma che il problema “nazionale” delle mafie se lo ponga un ministro della giustizia in carica è da segnalare come un fatto di assoluta importanza, pari a quello che cercò di fare in un altro periodo storico Claudio Martelli sotto la spinta di Giovanni Falcone.
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