Prato, il suicidio è una fuga nel nulla

di Alessandro Perissinotto
Martedì 20 Giugno 2017, 23:06
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 Il carcere è silenzioso, buio, anche se silenzioso e buio un carcere non lo è mai veramente, neppure in piena notte. Ed è nella notte tra lunedì e ieri che Marco Prato abbandona il suo letto, nella cella che condivide con un altro detenuto, va in bagno, si infila un sacchetto di plastica in testa, lo riempie del gas della bomboletta di butano che ha in dotazione per scaldarsi i cibi e inspira, profondamente, fino a far penetrare tutto quel gas nei suoi polmoni, fino a morirne. Ma chi piangerà per lui? Il padre, i familiari, ma gli altri? Già, perché Marco Prato era sicuramente un giovane disperato, come tanti altri suicidi.

Era uno che aveva perso la speranza, come tanti altri suicidi; ma, diversamente da tutti gli altri, era anche accusato di essere l’autore di uno dei più crudeli delitti che la cronaca ricordi: il delitto Varani. E allora chi pensa alla sua giovane vita spezzata, non può non pensare a quella di Luca Varani, torturato, mutilato e ucciso senza altra ragione se non il disprezzo per la vita stessa: in fondo, Marco ha avuto una morte più dolce di quella della sua (presunta) vittima.

Ma, ovviamente, un suicidio in prigione è una sconfitta, non solo per l’istituzione carceraria che avrebbe dovuto impedirlo (ma è davvero possibile?), ma anche e soprattutto per la giustizia: in fin dei conti, Marco Prato, infliggendosi da solo la pena capitale, è sfuggito al processo che lo attendeva, è sfuggito agli sguardi dei parenti della vittima, è sfuggito alle responsabilità del suo gesto, è sfuggito ad anni e anni di ripensamento su ciò che aveva fatto. In un famoso saggio dedicato al suicidio, il sociologo Émile Durkheim contemplava, tra gli altri, due tipi di suicidio antitetici: quello egoistico e quello altruistico. Il suicidio egoistico è tipico del soggetto asociale, dell’individuo che non riesce ad affrontare i problemi, né riesce a chiedere aiuto ad altri. All’opposto, il suicidio altruistico nasce da un obbligo sociale, da un vincolo supremo di solidarietà. È possibile che, nel suo gesto estremo, Marco Prato abbia sentito questo fortissimo vincolo di solidarietà con la società che egli stesso aveva ferito e umiliato?

È possibile che, uccidendosi, egli abbia voluto condividere la stessa sorte della sua vittima in un atto di espiazione? Se così fosse, possiamo dire che egli ha risanato un poco la ferita che aveva inflitto a Luca Varani e a tutti noi? Difficile rispondere positivamente senza cadere in una rischiosissima apologia del suicidio, ma, lo confesso apertamente, se quello di Prato fosse un suicidio altruistico, come quello del capitano di una nave che affonda col suo vascello, forse il giudizio morale su di lui potrebbe essere un po’ rivisto. Eppure, la tentazione di considerarlo un suicidio egoistico si fa molto forte. Marco aveva da poco scoperto di essere sieropositivo, aveva scoperto che, oltre al processo e a una lunga detenzione, c’era qualcos’altro che non si sentiva in grado di affrontare: la malattia.

Quella malattia che avrebbe potuto fare di lui un personaggio manzoniano, redento dalla sofferenza, lui l’ha rifuggita. Il conto che la sua esistenza, fatta di sballo e di eccessi, gli stava presentando, lui non lo ha voluto pagare. Così come non ha voluto reggere il peso di quella che lui, nella sua lettera di addio, ha definito «l’assedio mediatico che ruota attorno a questa vicenda», come se, dopo aver partecipato (a quale titolo avrebbe dovuto stabilirlo il processo) allo scannamento di un essere umano, si potesse anche chiedere agli altri un po’ di discrezione, un po’ di riservatezza, come se la società non avesse il diritto di urlare il proprio sdegno e il proprio dolore e fosse invece costretta a sussurrarlo, con grazia e leggiadria.

La morte di Marco Prato sarebbe un dolore per tutti anche se fosse stato un gesto di pentimento e di redenzione, ma ancor più doloroso è pensarla come una fuga, come beffa ulteriore alla famiglia di Varani, come uno sberleffo a tutti noi.
Quando il figlio venne arrestato, Ledo Prato, il padre di Marco, scrisse, in una lettera aperta, queste parole: “Con il vostro aiuto, con quello del Signore che non ci lascia mai soli perché è pronto a mischiarsi con la nostra storia anche di peccatori, ci accingiamo con passo lieve ad attraversare questa tempesta. Che Dio aiuti quanti ne hanno bisogno». Forse il Signore, se esiste, è pronto a entrare nella vita di tutti, anche dei peggiori peccatori, ma non può entrare in quella di chi disprezza la vita stessa, quella degli altri e, inevitabilmente, la propria: non è una scelta di Dio, è una scelta dell’uomo.

 
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