Se «l’effetto Torino»
chiude le piazze

di ​Alessandro Perissinotto
Domenica 25 Giugno 2017, 23:55
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Si comincia ormai a chiamarlo «effetto Torino», è l’onda lunga della paura provata in piazza il 3 giugno durante la trasmissione, su schermo gigante, della finale di Champions league: oggi tutti paiono voler trarre lezioni da quella serata di follia collettiva costata la vita a una giovane donna schiacciata dalla folla. Peccato che, come studenti svogliati, alcuni amministratori locali di quella lezione abbiano imparato solo le parti più facili, quelle che si riassumono in una parola soltanto: divieto. 

Vietare è semplice e ancor più semplice è farlo in maniera dissennata, ma tra un legittimo e giustificato divieto e una arbitraria e insensata privazione della libertà, il passo è brevissimo: trasformare le piazze in luoghi «a numero chiuso» è ragionevole divieto o è autoritaria privazione di libertà? 

La risposta, ovviamente, sta nel buon senso con cui si attuano le strategie di controllo degli afflussi. Una piazza chiusa tra palazzi è di per sé uno spazio a numero chiuso, non è la campagna di Woodstock, ma questo lo sapevamo anche prima dei fatti di Torino: fare in modo che la piazza possa riempirsi, ma in condizioni di sicurezza è buon senso. È buon senso eliminare tutti gli ostacoli che potrebbero rendere difficoltosa una rapida e sicura evacuazione (transenne, cavi e quant’altro); è buon senso far rispettare con il rigore di sempre le regole che già esistono (divieto di vendita di bottiglie di vetro durante spettacoli pubblici, divieto di sosta per paninoteche ambulanti con tanto di bombole del gas). Non è buon senso passare dalla sicurezza alla strategia della tensione, non è buon senso usare il divieto come scappatoia rapida per non ingegnarsi a trovare soluzioni di sicurezza più impegnative, ma anche più rispettose dei cittadini: già, perché dimezzare per decreto la capienza di una piazza è certamente un buon sistema per evitare i problemi, ma significa anche privare i cittadini di spazi, tradizioni e abitudini che motivano il nostro senso di appartenenza a un territorio.

A Siena, per la prima volta, per assistere al Palio vi sarà il numero chiuso e una misura analoga è prevista per la festa di Maradona in piazza del Plebiscito a Napoli; ma, naturalmente, Torino, città laboratorio, sul numero chiuso è arrivata prima e sabato sera, per la festa di San Giovanni, ha blindato il centro cittadino costruendo 11 varchi d’accesso, nei quali i potenziali spettatori dello spettacolo pirotecnico venivano controllati come non accade neanche all’aeroporto di Tel Aviv. Il risultato è stato mortificante per l’intera città: ad assistere ai fuochi d’artificio erano ammesse 48.000 persone, ma, alla fine, a riuscire ad entrare nella zona protetta sono state solo 26.000; l’anno scorso i fuochi di San Giovanni erano stati visti da quasi 100.000 persone. Significa che decine di migliaia di torinesi, quest’anno, sono stati privati di una festa che è sentita come poche altre. 

All’opposto di Torino, che ha scelto il divieto e la desertificazione come via alla sicurezza, c’è Nola: la festa dei Gigli, per la ricorrenza di San Paolino, ha visto la partecipazione di 50.000 persone, ha visto l’impiego di telecamere e di un discreto dispiegamento di forze, ma nessuna limitazione, nessun numero chiuso. Certo, potremmo parlare delle differenze tra i grandi centri urbani e le città di provincia, ma è una distinzione che regge fino a un certo punto: dopo la strage di Nizza, in Francia, anche le piccole sagre paesane si svolgono sotto l’occhio attento delle forze dell’ordine, anche nei paesini si mettono dissuasori di cemento per impedire ai camion di piombare sui ballerini di liscio e sui giocatori di bocce, ma ben poche sono state le manifestazioni annullate. 

Nella stessa Nizza, la Promenade des Anglais è pattugliata da militari con il mitra: certo, è straniante andare in spiaggia con l’esercito che marcia sulla passeggiata a mare, ma in spiaggia si va, e ci si riappropria dei luoghi che il terrorismo vorrebbe toglierci. Se Chiara Appendino, invece di essere sindaca di Torino lo fosse di Nizza, avrebbe già fatto chiudere le spiagge e prosciugare il mare, così, per stare più tranquilli. Ciò che è successo a Torino il 3 giugno durante la partita Juventus-Real Madrid è per il 30% frutto di psicosi da terrorismo e per il 70% conseguenza di un’organizzazione dilettantesca. Quello che è accaduto l’altra sera, con la città deserta e i turisti stranieri che avevano l’impressione di essere sbarcati a Beirut ai tempi della guerra civile, è al 100% frutto dell’inadeguatezza della giunta Appendino e, in particolare, di una sindaca che, forse per il raffronto con altre colleghe, gode di una fama di efficienza del tutto usurpata. 

L’uso selvaggio e mortificante del numero chiuso, lo ripetiamo, è una scorciatoia pericolosa, è la semplificazione di chi non capisce che ogni festa rovinata, ogni piazza deserta, ogni cittadino costretto a rinunciare a un angolo della sua terra è una piccola battaglia vinta dal fanatismo e dal terrore. Di fronte a un terrorismo che necessita di risposte razionali e innovative (sul piano organizzativo e su quello tecnologico), noi abbiamo reagito con una risposta emotiva, con l’effetto Torino. Se non cambiamo strada, il 2 luglio parleremo di effetto Siena e il 4 di effetto Napoli (o effetto Maradona). Se non cambiamo strada, Siena, Napoli e cento altre città (ma non Nola), nel giorno della festa si copriranno di quel velo di tristezza che aleggiava nella mia città nel giorno del santo patrono; l’altra sera, a Torino, stavo per mettermi a piangere da tanto era triste il centro a numero chiuso, poi però ho visto una scena che mi ha risollevato il cuore: una pattuglia dei vigili urbani aveva fermato un temibile venditore di palloncini e, ormai da un quarto d’ora, stava cercando di stipare nella vettura di servizio una ventina di palloncini giganti a forma di gatto e di canarino Titti. Vedere gli agenti della Municipale così impegnati contro la riottosa refurtiva che cercava di evadere a tutti i costi mi ha reso estremamente fiducioso.
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