Se la camorra cambia pelle

di Isaia Sales
Giovedì 7 Settembre 2017, 22:29
5 Minuti di Lettura
Quando un’organizzazione criminale, compresa la camorra, può definirsi di tipo mafioso? Solo quando è in grado di dare disciplina e metodo a tutte le altre forme delinquenziali operanti sul suo stesso territorio e impedire che l’uso quotidiano della violenza da parte dei diversi operatori criminali possa nuocere ai suoi affari. Perciò, ogni mafia o camorra che meriti tale appellativo è a suo modo una particolare «criminalità d’ordine». La funzione d’ordine da parte dei mafiosi e dei camorristi è quasi connaturata alla loro caratteristica criminale. Fisiologicamente un sistema camorristico-mafioso che vuole tenere buone relazioni con il sistema istituzionale deve sapere colpire gli elementi più indisciplinati del mondo della violenza.

Frenare i loro «eccessi», perché con un forte allarme dell’opinione pubblica non si può contare su di una certa neutralità che le forze dell’ordine osservano, nei fatti, quando non si superano determinati «eccessi
». Se non riuscissero a tenere a bada i più riottosi, dimostrerebbero di non controllare il territorio, perché quando in una determinata zona qualunque delinquente può fare quello che vuole si rompe il prestigio e la rispettabilità del camorrista-mafioso e del suo clan.

Il rispetto delle gerarchie e delle regole non è, dunque, una fissazione arcaica ma possiede una sua razionalità criminale: è solo la capacità di far rispettare le regole e la gerarchia che trasforma la violenza in strumento di ascesa sociale, in strategia di costruzione del potere e della ricchezza. Senza disciplina e gerarchia la violenza è solo strumento di autodistruzione di chi la possiede. Nel corso della storia, fino ai primi decenni del secondo dopoguerra, c’è sempre stato un rapporto ambiguo tra mafie, camorre e istituzioni.

In alcuni momenti i mafiosi e i camorristi sono stati degli ottimi coadiuvatori dell’ordine pubblico, ed è a questa funzione che debbono le buone relazioni che hanno avuto con polizia e magistratura. Perché nella funzione di ausilio dell’ordine pubblico essi si fanno «potere costituito» che collabora con il potere ufficiale, come se ci fosse il riconoscimento di un comune obiettivo, cioè quello di liberare la società dai delinquenti comuni, quelli che non hanno strategia e accortezza nell’uso della violenza ma si comportano come volgari malfattori, dannosi per lo Stato e per gli stessi clan perché non rispondono a nessun ordine.

Perciò vanno eliminati o messi in condizione di non nuocere. Se da alcuni anni a Napoli succede che la violenza ha libero corso nel mondo criminale senza disciplina e regolazione, ciò cosa può voler dire? Secondo alcuni il mancato governo della violenza è da attribuire alla fine dei vecchi clan, pressati dalle attività repressive della magistratura e dalla competizione sanguinaria di giovanissime leve criminali, che ne hanno preso il posto approfittando dell’azione sempre più incisiva degli organi di sicurezza, che negli ultimi anni ha permesso di smantellare numerosi clan napoletani.

Questa interpretazione si espone a due considerazioni inaccettabili: un rimpianto, appunto, dei vecchi clan che imponevano «ordine al disordine» dei violenti di strada, e al fondo una indiretta critica alle forze di sicurezza, quasi a dire: era così necessario concentrasi nello smantellamento delle vecchie famiglie camorristiche? Ecco, questi sono i risultati! Un’altra interpretazione sostiene che i vecchi capi, al contrario di ciò che si ritiene, non avrebbero perso il loro ruolo ma proverebbero a gestirlo in alto modo, fuori dai riflettori.

Perciò sarebbero loro stessi ad armare i giovanissimi, a farli scontrare, a dargli l’illusione di comandare, ottenendo in questo modo che l’attenzione delle forze di sicurezza si concentri sui ripetuti omicidi, sulle «stese», sulla violenza quotidiana, di modo che essi possano dedicarsi ai loro affari milionari senza il fiato degli investigatori addosso. Saremmo, insomma, di fronte ad una lucida strategia della vecchia camorra di sopravvivere alimentando la violenza al posto di contenerla. È una ipotesi che si scontra con la realtà: la maggior parte dei capi clan di un tempo sono in galera, o sono diventati collaboratori di giustizia, e sempre più numerosi sono i sequestri e le confische delle loro ricchezze.

E poi è difficile immaginare i capi dei vecchi clan, che si sono sempre combattuti tra di loro, che concordano una strategia unitaria che prevede di dare in mano ai giovanissimi il controllo delle strade mentre loro si dedicano agli affari: è facile prevedere che prima o poi i giovani violenti si impadroniranno anche delle loro attività, come già sta avvenendo per la droga. L’ipotesi che a me sembra più probabile è che siamo di fronte a qualcosa di inedito, che non è più camorra ma non è solo banale esplosione di violenza incontrollata. È invece un particolare e impressionante approdo della questione giovanile in una grande area urbana senza mezzi economici, culturali e sociali di integrazione, e con una lunga tradizione criminale alle spalle.

Troppi giovani dei quartieri pensano che l’unico accesso alla mobilità sociale sia fornito dalla spregiudicata e spietata utilizzazione della violenza.
Ciò è stato favorito dal fatto che i clan di camorra per anni non hanno provato a selezionare i loro quadri, accettando di tutto nella loro organizzazione. La situazione di oggi sarebbe, quindi, l’esito di una organizzazione criminale aperta a tutti i violenti senza selezione di nessun tipo, dall’altro dell’accentuarsi di una questione giovanile in una metropoli senza mezzi e senza molte strade alternative di autorealizzazione. Un difetto di organizzazione mafiosa e al tempo stesso un problema strutturale di contesto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA