Se la Consulta può ridare
vita ai partiti

di Alessandro Campi
Giovedì 26 Gennaio 2017, 23:37
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 L’impressione, dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha drasticamente emendato l’Italicum e dopo anche la strana euforia che l’ha accompagnata (a partire incomprensibilmente da Renzi e dai renziani), è che dovremo fare, politicamente parlando, di necessità virtù. Cosa significa? Se l’Italicum era una legge iper-maggioritaria, immaginata come lo strumento perfetto per dare all’Italia un governo finalmente stabile ed autorevole (anche se a scapito della rappresentatività), l’intervento chirurgico della Consulta l’ha trasformata in un sistema di voto sostanzialmente e inequivocabilmente proporzionale.


Che se applicato ci darà, stante gli attuali rapporti di forza, un Parlamento diviso e frammentato, all’interno del quale non sarà facile trovare la maggioranza necessaria a formare e sostenere un governo (ma un governo, se questo è il problema, alla fine si trova sempre). Certo, è rimasta nella legge la possibilità teorica del premio in seggi per il partito (o la lista) che dovesse superare la soglia del 40% dei voti, ma al momento nessuno dei tre poli – Pd, M5S, centrodestra berlusconiano – sembra avere la forza per avvicinarsi a quel traguardo. Si tratta dunque di un espediente maggioritario solo formale e destinato a restare quasi certamente inapplicato.

Stando così le cose, si potrebbe, sempre sul piano teorico, provare a rimettere al Parlamento – dunque ai partiti – la definizione di una legge elettorale diversa da quella, in stile vecchia Prima Repubblica, che i giudici ci hanno confezionato: non per cattiveria o insipienza, come qualcuno adombra, ma semplicemente perché il loro compito era di pronunciarsi in termini di coerenza costituzionale sulle scelte fatte – male, come si è visto – da altri.

Ma l’idea di un accordo parlamentare, che possa avere come base, ad esempio, il vecchio Mattarellum e che dunque provi a salvare qualcosa di questi vent’anni spesi nel tentativo di costruire anche in Italia una democrazia dell’alternanza, decidente e d’impianto maggioritario, si è già visto che non funzionerà. Manca la volontà necessaria per trovare un vasto accordo su una materia tanto delicata. E sono già in troppi a chiedere a gran voce elezioni immediate e a pretendere che le si faccia proprio con il Consultellum pienamente vigente. Voteremo dunque, assai probabilmente e di necessità, con una legge elettorale proporzionale sia alla Camera sia al Senato, non appena si saranno fatti i piccoli aggiustamenti tecnici comunque necessari (ad esempio in materia di collegi).

Conviene farsene una ragione, piuttosto che versare lacrime sul triste fallimento della Seconda Repubblica e sugli inutili propositi riformatori che l’hanno sostenuta. E convince cercare per l’appunto qualcosa di politicamente virtuoso in un sistema di voto che in fondo ci ha fatto compagnia per quasi cinquant’anni della nostra storia. Ma di quali virtù possibili o potenziali parliamo? Guardando all’esperienza dell’Italia repubblicana sino al 1992-93, prima del grande crollo che aprì l’era dei partiti personalizzati (nonché personali) e della democrazia del pubblico, si scoprirà che quando si votava col proporzionale i partiti, accanto a tanti difetti, avevano il merito di mantenere con il corpo sociale, in tutte le sue articolazioni, un rapporto diretto e sostanziale.

Per procacciarsi i voti, ognuno per sé, essi non si affidavano alla forza degli slogan o al magnetismo, veicolato mediaticamente, del leader. Facevano invece affidamento su una vasta trama di relazioni e contatti, su una conoscenza non virtuale ma carnale e personale degli elettori (e delle loro esigenze reali, non dei loro malumori effimeri). Era altresì chiaro, in quell’epoca, che una politica che rifiuta il principio della mediazione, priva cioè di filtri istituzionali e sociali, alla quale si può accedere senza particolari competenze e senza una formazione specifica, difficilmente può produrre quella che si chiama una classe dirigente.

Se tornare al passato, come tecnica di voto, potesse dunque servire per guarire dall’infantilismo nel quale siamo caduti – il mito della democrazia internettiana, il ruolo maieutico assegnato a leder tanto forti e promettenti quanto soggetti ad una consunzione rapida, la sostituzione della cultura politica con la comunicazione politica, la demagogia che ha preso il posto della propaganda ecc. – alla fine non potremmo che guadagnarci tutti. La Seconda Repubblica era il sogno di una democrazia bipolare sorretta da grandi forze popolari che si contendono il potere sulla base di programmi politici alternativi. Ma quel sogno si è risolto, da un lato, nella contesa tra aggregazioni politiche incoerenti e litigiose, prive di una visione comune, e dall’altro in forme di leaderismo esasperato che hanno a loro volta prodotto un clima politico astioso e avvelenato, con gli italiani che invece di unirsi si sono sempre più divisi e incattiviti.

E tutto questo mentre i partiti si andavano trasformando da macchine elettorali in stile americano in sigle evanescenti dietro le quali, come si è scoperto, non esiste ormai nulla: né una base militante, né una qualche progettualità, ma solo cordate di potere, gruppi affaristici o schiere di gregari indottrinati o mossi solo dall’interesse personale. Servirà un ritorno al proporzionalismo per restituire alla politica un po’ della sua dignità perduta, ai partiti la loro fondamentale funzione di raccordo tra istituzioni e società e ai leader quella capacità direttiva e appunto di guida che hanno perduto dacché si sono messi ad inseguire gli istinti e le pulsioni delle masse? Pensare che il proporzionalismo coatto verso cui ci stiamo avviando possa essere un’occasione di riscatto per il nostro sistema politico probabilmente è un’idea ingenua, forse persino sbagliata, visto che la qualità degli attori politici non è certo direttamente influenzata dal modo con cui si vota.

Ma giunti al punto in cui siamo che male c’è se ci si affida ad una speranza come questa, in fondo innocente? Volevamo una politica nuova, un’Italia migliore, una repubblica più efficiente, istituzioni più veloci, cittadini più liberi e responsabili.
Ed eccolo, sotto i nostri occhi, l’esito della rivoluzione cominciata con Mani Pulite, proseguita con Berlusconi e Prodi, passata attraverso l’esperimento dei governi tecnici, rilanciata da Renzi e che come punto di approdo rischia di avere, travestito da democrazia diretta e da potere popolare, il Grande Fratello grillino. Si torna dunque forzatamente al passato. Ma vuoi vedere che forse è meglio così?


 
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