Sud e fondi europei: «cassa continua»
che ha evitato il crac

Sud e fondi europei: «cassa continua» che ha evitato il crac
di ​Gianfranco Viesti
Mercoledì 22 Marzo 2017, 00:31
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Uno dei volti più importanti e conosciuti dell’Europa è quello dei fondi strutturali. Sono, come ben noto, risorse che il bilancio europeo destina allo sviluppo di tutte le regioni dell’Unione, ma in particolare a quelle più deboli, di cui il Mezzogiorno ha beneficiato sin dalla loro istituzione. I fondi strutturali non nascono con il Trattato di Roma, di cui festeggiamo i sessanta anni; ma successivamente, a partire dagli anni novanta. Nel primo trentennio europeo queste politiche erano esclusivamente nelle mani, e nella responsabilità, degli stati nazionali. Ma poi con l’Atto Unico europeo (1986), e con la preparazione del trattato di Maastricht (1992) ci si rende conto che nella nuova Europa possono determinarsi (come in effetti poi è avvenuto) fenomeni di polarizzazione dello sviluppo nelle aree già più ricche e forti. Si interviene allora con queste politiche europee “per la coesione”: una scelta importantissima. Esse devono sommarsi alle politiche nazionali; i fondi sono per definizione aggiuntivi rispetto a quello che gli stati membri già fanno. Servono per raggiungere un fondamentale obiettivo: consentire a tutti i cittadini, anche quelli delle regioni deboli, di trarre un forte beneficio dall’essere europei.

Nell’esperienza italiana, sommare le due politiche destinate allo sviluppo del Mezzogiorno, quella europea e quella nazionale, non è mai stato facile. Le politiche europee sono basate sulla programmazione di un insieme articolato di interventi in un arco temporale di alcuni anni, con meccanismi di monitoraggio e di verifica; richiedevano, sin dall’inizio, una elevata qualità delle amministrazioni chiamate ad attuarle. Arrivano in Italia nel momento peggiore: quando si chiude la Cassa per il Mezzogiorno e le competenze passano a ministeri e regioni; si scopre che sia gli uni che le altre sono ben poco attrezzati per gestire una strumentazione complessa. L’esperienza dei fondi europei negli anni Novanta non è così particolarmente felice. Con la fine di quel decennio c’è però una fondamentale innovazione politica, introdotta all’epoca di Carlo Azeglio Ciampi e Fabrizio Barca. Le risorse nazionali per lo sviluppo del Mezzogiorno vengono riunite tutte nel Fondo Aree Sottoutilizzate (che per la verità interviene anche al Centro-Nord e che poi si chiamerà FSC). Le risorse nazionali vengono poi programmate insieme ai fondi strutturali europei del periodo 2000-06. Si cerca anche di potenziare molto le capacità delle amministrazioni. L’Italia si pone così all’avanguardia in Europa: con una politica di sviluppo regionale unitaria, in cui convergono sia risorse nazionali che comunitarie aggiuntive, con gli stessi obiettivi; una politica che si attua con le regole europee: interventi pluriennali integrati, sia a scala nazionale sia a scala regionale. È forte la speranza di un vivace sviluppo nel Mezzogiorno.

La speranza va delusa, per più motivi. Tutto il paese all’improvviso rallenta; lo sviluppo del Mezzogiorno non acquista mai centralità politica e le classi dirigenti del paese non credono mai davvero in questa strategia. Per di più le risorse nazionali vengono rese disponibili con il contagocce; e la spesa si rivela particolarmente lenta. Ci si riprova con il 2007-13, l’esito è però simile, influenzato da due ulteriori elementi: le risorse nazionali vengono progressivamente distolte, specie nel 2008-10, verso tanti altri obiettivi: si pensi che dei 37 miliardi previsti ne restano solo 19; quelle europee diventano ormai non aggiuntive, ma pienamente sostitutive. La grande crisi che colpisce l’Italia, e specialmente il Sud, a partire dal 2008-09 rende poi tutto più arduo. È il periodo in cui cambia l’immagine dei fondi strutturali: da grande politica europea di sviluppo essi diventano l’emblema dello spreco: opere inutili, soldi non utilizzati.

Una rappresentazione falsa. L’attuazione di queste politiche, lo si è detto, non è stata facile. Ha incontrato più ostacoli. Le modeste competenze e capacità tecniche di ministeri e regioni. La loro articolazione su una molteplicità di obiettivi (anche su impulso europeo) per cui i programmi sono estremamente complessi e articolati, e difficili da mettere in atto. La necessità di usarli come un jolly per ogni intervento necessario, dato il contemporaneo, forte, taglio delle altre risorse destinate al Mezzogiorno: taglio divenuto ancor più forte dopo il 2011, quando le risorse nazionali per lo sviluppo del Sud vengono ridotte ai minimi storici (specie nel 2014-15) e restano solo quelle comunitarie. La spesa resta molto lenta, ancor più lenta che nel passato; e con la necessità di forti accelerazioni finali (e di artifizi contabili): come nel 2015, quando è scaduto il termine per utilizzarli. Contrariamente a quanto si sente spesso dire, tuttavia, non è mai successo che queste risorse siano rimaste inutilizzate e quindi restituite a Bruxelles (se non per importi irrisori). E sono state tutt’altro che inutili. Recenti valutazioni indipendenti condotte dalla Commissione Europea ne mostrano un significativo impatto positivo anche al Sud: su molti ambiti, fra cui spiccano ad esempio il forte, importantissimo, ammodernamento degli aeroporti e il sostegno all’innovazione delle imprese. Negli anni più duri della crisi i fondi strutturali sono stati poi l’unica risorse per limitare un po’ quel crollo degli investimenti pubblici che tanto ha penalizzato, e sta penalizzando il Sud. Non è un caso che il boom della spesa nel 2015 sia coinciso con l’unico anno buono per il Sud negli ultimi tempi.

Ora è in corso il programma 2014-2020, a cui il dibattito nazionale non presta però la minima attenzione. E’ ormai derubricato a questione tecnico-amministrativa. E’ un vero peccato perché i fondi strutturali sono una componente importante (anche se chiaramente del tutto insufficienti da soli, data la loro dimensione) di una politica per rilanciare il Mezzogiorno. 
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