Usa, stop agli islamici
per Trump vittoria a metà

di Flavio Pompetti
Martedì 27 Giugno 2017, 00:00
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Donald Trump canta vittoria: la Corte suprema ha deciso di prendere in esame il prossimo ottobre il bando temporaneo all’immigrazione da sei paesi a maggioranza islamica. Nell’attesa di esprimere un parere, i nove giudici all’unanimità hanno deciso di sbloccare il provvedimento, la cui applicazione era stata paralizzata dalle sentenze di due tribunali di appello.

Da oggi le ambasciate americane nei sei paesi accetteranno solo le domande di visto di chi ha un collegamento diretto e personale negli Usa (un parente, un’offerta di lavoro, l’invito di amici), mentre tutte le altre richieste saranno tenute in quarantena per i 90 giorni previsti dal decreto, che poi finiscono per identificarsi con l’attesa per il parere che la corte esprimerà alla ripresa autunnale dei lavori.

Trump ha vinto perchè è riuscito a consegnare ai suoi elettori la più pressante promessa della campagna che lo ha portato alla Casa Bianca, sia pure in attesa di una definitiva conferma giudiziaria: quella di irrigidire i permessi di accesso a chi viene da un paese di fede islamica. L’ordine esecutivo 13769, con il quale aveva cercato di dar luogo all’impegno, porta la data del 27 di gennaio, una settimana dopo il giuramento. Trump si era praticamente appena seduto alla scrivania dell’ufficio ovale; non aveva ancora sperimentato le difficoltà di comunicazione con una buona parte dell’esecutivo, nè la fuga cronica di notizie che avrebbe ostacolato nei mesi a venire l’azione di governo, ma nutriva già una buona dose di sfiducia nei confronti dell’apparato burocratico. Per questo non si consultò a dovere con la squadra legale che avrebbe dovuto vagliare il provvedimento. Ne commissionò la scrittura a Stephen Miller, uno dei giovani avvocati a lui più vicini, e chiese che fosse comunicata con un preavviso minimo all’apparato di sicurezza e di giustizia prima della sua applicazione. Questa fretta produsse un testo opinabile, che fu infatti impugnato entro 24 ore da un tribunale di Brooklyn, e ha poi costretto l’amministrazione ad una seconda versione, che è quella oggi oggetto di giudizio della corte suprema.

L’aver sbrogliato, sia pure provvisoriamente, l’impasse che si era creato, rafforza l’idea di un Trump mastino della politica, determinato a realizzare punto su punto le idee chiave della visione che l’ha portato alla Casa Bianca. Questa conferma non potrebbe tra l’altro arrivare in un momento più cruciale, con la controriforma sanitaria che sta per affrontare il voto del Senato dopo aver passato il vaglio della camera, e la nuova legge fiscale in arrivo prima della chiusura estiva. Trump si trova per la prima volta nei sette mesi del suo mandato, nella possibilità di chiudere a suo favore una trifetta che cancellerebbe le tante esitazioni che gli sono state attribuite a torto o a ragione finora, e che ne ribalterebbe l’immagine sulla piazza più importante: quella dell’inchiesta sul Russiagate. È su questo campo che l’opposizione è riuscita finora a tenerlo sotto scacco, e denunciarlo come un bersaglio di un probabile processo di impeachment.

Di fronte alla buona notizia che arrivava dalla Corte, infatti, Trump ieri per una volta non si è affrettato ad impugnare il cellulare per auto congratularsi su Twitter. Ha usato invece il rete per attaccare i suoi inquirenti: «Nemmeno con la lente d’ingrandimento – ha scritto – stanno trovando registrazioni compromettenti o prove di una collusione. Mi devono delle scuse!».

L’inchiesta del procuratore speciale Rob Mueller è una partita ancora tutta da giocare e sicuramente destinata ad offrire nuovi colpi di scena. Nel frattempo però Trump ha incassato in sordina un’iniezione di fiducia molto più importante di quella che gli è venuta dalla Corte Suprema, e molto più influente dei voti che potrebbero arrivare dal congresso. Il presidente ha ricevuto una settimana fa il consenso degli elettori in quattro consultazioni popolari che hanno premiato altrettanti candidati repubblicani. Il voto si è tenuto in roccaforti del conservativismo e il margine di vittoria mostra anche un’avanzata degli oppositori democratici in ognuna delle competizioni. Ma il tanto temuto ribaltone, specialmente per l’elezione nel sesto distretto della Georgia dove il democratico Ossoff aveva ammassato 23 milioni di dollari in fondi elettorali, non c’è stato, e questo dato ha implicazioni profonde per la tenuta di Trump. Vuole dire che l’affiliazione con il presidente non è un handicap per senatori e rappresentanti della camera ma un viatico per la vittoria, e che a nessuno di loro conviene rompere il fronte compatto della maggioranza, né oggi per sanità e fisco, né il prossimo anno, nell’elezione di metà mandato.
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