Zamberletti: troppe verande e pochi pilastri
il sisma resta una roulette, fu così in Irpinia

di Generoso Picone
Lunedì 29 Agosto 2016, 23:27
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Troppe verandine e pochi rinforzi ai solai. Giuseppe Zamberletti osserva con preoccupata delusioni le immagini del terremoto dei Monti Sibillini e pensa a quella norma adottata nel 1984 dopo una scossa di terremoto in Abruzzo e Molise di entità non grave e soprattutto senza vittime. «Era ancora aperta la ferita del disastro in Irpinia e tentammo di fare tesoro dell’esperienza maturata in Friuli. Ero ministro per il coordinamento della Protezione civile e stanziammo dei fondi per intervenire non soltanto sugli edifici lesionati ma soprattutto su quelli che avevano retto alle scosse senza comunque non rispondevano ai requisiti di antisimicità. I proprietari avrebbero potuto beneficiare dei contribuiti per mettere in sicurezza le case in cui abitavano e alla fine ci ritrovammo più verandine che tiranti. Avevamo sprecato un’occasione e molte risorse, peggiorando di fatto la situazione», racconta Zamberletti, il commissario dei terremoti, l’uomo che gestì le emergenze in Friuli dopo il 6 maggio 1976 e in Irpinia dopo il 23 novembre 1980, il padre fondatore della Protezione civile in Italia. L’ex parlamentare della Dc ha oggi 82 anni, vive nella sua Varese, è cittadino onorario di Sant’Angelo dei Lombardi e di numerosi altri Comuni che hanno subìto distruzione morte.

Zamberletti, messa così la faccenda appare inutile ogni piano straordinario del governo per evitare altre sciagure.


«È una questione di cultura. Nonostante le devastazioni, le lacrime, i lutti e gli appelli pare che si torni sempre all’anno zero. Gli italiani non ce la fanno proprio, scatta puntualmente il riflesso condizionato come al tavolo della roulette russa: non è capitato a me, allora posso dirmi salvo. Ma non si capisce che il prossimo colpo potrebbe essere fatale e allora siamo qui a contare i danni e le vittime».

Pessimista, dunque?

«No. Constato che il sistema della Protezione civile invece è rodato, funziona e anche in zone impervie come quelle di Amatrice, Accumoli e Arquata i soccorsi sono immediati ed efficienti. Questo dopo, però: il problema resta la prevenzione. E non si tratta di approntare nuovi dispositivi: così come non si combatte l’evasione fiscale esclusivamente con le leggi, occorre coscienza civile e senso di responsabilità».

Questo naturalmente vale anche per i tecnici.

«Chiaro. Adottare criteri antisismici, nelle fasi di costruzione e di adeguamento dei fabbricati e delle opere, costrituisce oggettivamente una pratica complicata. Ma è obbligatoria, non ci può essere raggiro o alternativa. Ricordo che in Friuli per sostenere l’azione dei tecnici e prepararli alle funzioni che venivano dal terremoto organizzammo dei corsi e sulla scorta di questa esperienza il generale Vittorio Bernàrd, comandante del Genio militare, fese lo stesso in Irpinia e Basilicata. So che l’Università “Federico II” di Napoli è oggi un centro importante di elaborazione e diffusione dei saperi più avanzati in materia, un riferimento di carattere nazionale. Eppure la cultura della prevenzione non riesce a diventare patrimonio acquisito. Sarà che nessuno vuole metterci del suo, che si pensa sempre che toccherà all’altro e non a sé. Così non si va da nessuna parte».

Manca il senso responsabilità. Lei è d’accordo nell’affidare ai sindaci il compito di gestire la ricostruzione?

«Sì, certamente. Non c’è nessun altro che sappia interpretare e rappresentare le esigenze e le volontà delle comunità terremotate. In momenti del genere le decisioni calate dall’alto sono quanto di peggio possa accadere. Naturalmente c’è bisogno di sostenerli con strutture tecniche importanti e trovo giustissima l’indicazione di nominare un commissario nella persona di Vasco Errani, esperto di enti locali e pubblica amministrazione. In Irpinia i sindaci lavorarono in maniera encomiabile. Quando appena dopo il 23 novembre 1980 vidi Rosanna Repole a Sant’Angelo dei Lombardi le domandai: le metto una responsabilità così grossa sulle spalle, lei è una ragazzina, ce la farà? Ho scommesso e se 36 anni dopo Rosanna Repole è tornata a fare il sindaco vuol dire che è stato premiato il suo coraggio e la sua capacità di governo. Io ho vinto una sfida».

Ma allora che cosa ha pensato quando il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, il 23 novembre 1980 giudice al Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, ha avvertito che si verificherà oggi un nuovo caso Irpinia? Quanto si sente coinvolto in questo che è diventato stereotipo negativo nazionale?

«Ho provato un senso di forte amarezza. Io ho operato nell’Irpinia dopo il 23 novembre 1980 e non potevo conoscere tutto ciò che lì era successo prima. Gli sprechi, le inchieste, gli scandali e le polemiche hanno poi riguardato un aspetto che non rientrava nelle mie competenze, l’industrializzazione. Si immaginò, allora, di coniugare i due obiettivi, la ricostruzione e lo sviluppo, e probabilmente non costituì la scelta migliore. Ma io sono orgoglioso del mio lavoro e dell’Irpinia e della Basilicata conservo memorie vive e felici. Spesso si dimentica le dimensioni del dramma di 36 anni fa, con un’area colpita enorme e varia che andava da Napoli a Matera. Se oggi vedo i centri storici ricostruiti non possono non essere soddisfatto».


Al commissario Errani e ai sindaci dei Monti Sibillini indicherebbe la stessa strada, ricostruire cioè i centri storici ed evitare le cosiddette new town?

«Assolutamente sì. Dov’erano e com’erano, però nella sicurezza. Il piano del governo con Renzo Piano dovrà tenerne conto. È quanto fu fatto anche in Friuli e oggi può aiutare la circostanza che la zona colpita sia più limitata e la popolazione interessata meno numerosa. Soltanto nella provincia di Napoli, 36 anni fa, i numeri erano decisamente superiori a quelli del terremoto di oggi tra Amatrice, Accumolo e Arquata».

Prima, però, c’è un’emergenza ancora da gestire. Da dove comincerebbe lei?

«Dai prefabbricati. Per ricostruire le abitazioni e i servizi, le scuole innanzitutto, occorrerà attrezzare i prefabbricati».

Con il rischio baracche?

«Guardi, quando dopo il 23 novembre 1980 Indro Montanelli scrisse delle baracche in Irpinia io lo invitai a visitarle. Lui venne a Conza della Campania. Qui il sindaco ci offrì un caffè in quella che allora era casa sua, un prefabbricato. Montanelli fu sorpreso dalla dignità dell’abitazione e disse: se ci fosse stato Gianni Agnelli le avrebbe definire chalet, siccome si tratta dell’Irpinia le chiamano baracche».

Indubbiamente c’è prefabbricato e prefabbricato. Ma quanto tempo dovrebbero durare per non ridursi a baracche del Belice?

«Non più di 10 mesi-un anno. Sistemarli non sarà facile, ma in Irpinia ne realizzammo così 25mila alloggi».

Nel frattempo?

«Le roulotte, mai le tende. Occorre toglierle subito. In Friuli adottammo questa soluzione e si rivelò efficace, grazie anche al sostegno dei volontari per la gestione dell’ordinario. Ecco, un altro punto essenziale è questo: mai lasciare soli i cittadini delle aree colpite, aiutarli costantemente a vivere, dai bambini agli anziani».

Anche dopo e non limitandosi a loro. Per esempio nella fase degli appalti per la ricostruzione?

«Anche dopo.
Occorre organizzare una struttura di supporto agli enti locali e mettere in contatto i tecnici locali con quelli dl commissariato straordinario. Non si conoscono, ciò garantirà la massima trasparenza e in questo modo si eviterà ogni ingerenza sospetta. Anzi, ci sarà da imparare». Che cosa? «La cultura della prevenzione. Il problema dei terremoti è tutto lì».
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