Cristina Comencini: «L'utero in affitto è da schiave»

Cristina Comencini: «L'utero in affitto è da schiave»
di Paola Del Vecchio
Sabato 13 Febbraio 2016, 11:10
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«Non possiamo sentirci libere, se non siamo libere di essere madri. Con il movimento femminista degli anni '70 e la legge dell'aborto, siamo uscite dalla tirannia della maternità come destino, ma resta la sfida di viverla come un atto di libertà, nell'età biologica, senza rinunciare all'affermazione al lavoro». Cristina Comencini, scrittrice, e regista, è fra le promotrici di «Se non ora quando» (Snoq) che il 13 febbraio - 5 anni esatti dopo la prima manifestazione che inondò di donne indignate le piazze dell'Italia berlusconiana - presenterà al Palazzo Ducale di Genova il manifesto riprendiamoci la maternità. L'appello femminista contro l'utero in affitto vietato dalla legge italiana è stato al centro dell'assise internazionale «Stop surrogacy now», che lo scorso 2 febbraio da Parigi ha chiesto ai governi di fermare questa pratica a livello globale. Un problema che non riguarda dunque solo l'Italia dove il dibattito si infiamma per le unioni civili e la maternità surrogata rischia di essere usata come cavallo di Troia per attaccare la stepchild adoption con l'evidente pericolo di confusioni e di liquidazioni sommarie di un tema delicato di coscienza, dai molti chiaroscuri, che ha già modulato su toni differenti anche le varie anime del movimento femminista, diviso in snoq-Libere, di cui Cristina Comencini è animatrice, e snoq-Factory, di cui fa parte la sorella, Francesca Comencini, dissociatosi dall'appello contro la gestazione per altri. «Le due questioni sono collegate fino a un certo punto», osserva la regista.Lei ha partecipato alle battaglie femministe degli anni '70, quando lo slogan era Essere libere di non essere madri. Ora dice: Riprendiamoci la maternità!

Come è cambiata la sua percezione?
«Sono stata una madre molto giovane: il primo figlio a 19 anni, il secondo 2 anni dopo e più tardi un terzo dal mio secondo matrimonio. Partecipare al movimento femminista per me è stato fondamentale, perché ero già madre, per cui la contraddizione si è aperta subito. Ho vissuto la maternità come grande bellezza e anche come isolamento. Oggi si fanno molti meno figli, e quella contraddizione che sentivo allora è deflagrata: abbiamo conquistato l'emancipazione, ma questa contrasta con la possibilità di essere madri, dato che la società non considera la procreazione un momento centrale dell'esistenza e, dunque, la possibilità di fare questa esperienza in età biologica. Per le giovani, la maternità ha lo stigma di una nuova sudditanza e minaccia di farle ricadere in un ruolo antico, proprio quando per la prima volta si è aperta l'opportunità di essere madri per scelta».

Nel manifesto è scritto: Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione non più del patriarca, ma del mercato.
«Prima ancora di mettere l'accento sull'utero in affitto, va posto sulla maternità, paternità e cura dei figli, a due, perché diventino priorità della cultura, della politica e della società. Un figlio non è un prodotto che si può comprare. Programmare un bambino da una madre gestante che poi sparisce oppure con il seme di un uomo che può anche non esistere, deve almeno indurci a interrogarci. La libertà senza limiti non è libertà».

La gravidanza surrogata è, in molti casi, l'unica possibilità per avere figli per donne che non hanno utero o soffrono patologie incompatibili con la gestazione, ma anche per le coppie omosessuali che vogliono avere un bambino.
«Intanto esiste un problema di classe, perché le donne che prestano l'utero sono spesso disagiate, al quale si aggiunge quello dello sfruttamento. Non mi interessa se a farvi ricorso siano coppie etero o omosessuali. Credo che dobbiamo porci il problema se, come esseri umani, si possa accettare. Il fatto di non avere alternative non esime dal chiederselo. E poi si possono adottare bambini già nati. La nostra legge vieta la compravendita e dunque, a maggior ragione, un contratto prima della nascita. Non si possono usare le donne come forni, dopo aver cancellato il loro orologio biologico».