Le relazioni allo stato primordiale

di Titti Marrone
Giovedì 21 Settembre 2017, 00:00 - Ultimo agg. 08:27
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Delirio appropriativo, vertigine di gelosia, smania di possesso assoluto: per quanto ci si possa sforzare di cercare categorie interpretative allo sparo fatto esplodere sulla faccia di una ragazzina di quindici anni, nessun movente logico può dirsi collegabile al gesto compiuto dall’uomo del Foggiano autore dell’aggressione a mano armata alla figlia della sua ex pronta per la scuola. Uno sparo in pieno viso alla ragazza, poi un colpo contro se stesso per chiudere la partita con il suicidio.

Di sicuro l’illogicità micidiale è propria di ogni delitto arrivato a compimento o anche solo tentato, ma nell’atto commesso da Antonio Di Paola c’è una specie di sovrappiù, un disvalore aggiunto poi culminato nell’insostenibilità, per lo stesso aggressore, dell’azione compiuta.

Vi aleggia una specie di arcaismo da Sud pirandelliano, da relazioni guaste che sembrano prendere il sopravvento fino a contagiare anche quelli non direttamente coinvolti: in questo caso un’adolescente, la figlia della donna con cui l’aggressore aveva una relazione, nel ruolo della vittima inconsapevole. Nel delitto di qualche giorno fa ad Alife, ad essere travolto dai veleni di famiglia è il figlio ventottenne diventato assassino del padre per difendere la madre da percosse continue. Al centro, in entrambi i casi, ci sono sempre famiglie, o relazioni di coppia, dominate dall’idea che per le donne esista un solo ruolo suggerito dalla natura, un unico destino di subalternità, obbedienza, silenzio, sottomissione.

Sullo sfondo dell’aggressione alla ragazza del Foggiano seguita dal suicidio del suo autore ci sarebbe il legame dell’uomo con la mamma della quindicenne, che la donna aveva deciso d’interrompere, trasferendosi in Toscana e affidando la figlia ai nonni. L’agguato di Antonio Di Paola alla ragazzina in procinto di salire sul bus diretto alla scuola nasceva, a quanto pare, dalla sua intenzione di mettere sotto pressione la figlia, d’interrogarla, farla parlare per sapere della mamma lontana. Già altre volte, del resto, l’uomo aveva minacciato la ragazza, seguita dai servizi sociali, allo scopo di conoscere particolari sulla fuga della donna. Per cavarle fuori una verità secondo lui nota all’adolescente vista come una complice materna e dunque come questa parimenti colpevole. Da qui è partita l’ira scaricata per interposta persona, colpendo la ragazza con l’intenzionalità violenta destinata alla donna che gli sfuggiva e con lui voleva troncare ogni rapporto.
La sensazione maschile di spodestamento dal proprio ruolo e la perdita di sé che ne può derivare sembrano in questo caso confermati dal fatto che l’uomo ha poi rivolto contro la propria persona la pistola usata contro la ragazzina, che forse credeva di aver ammazzato. E a far precipitare verso il delitto, o il tentato omicidio, o comunque l’atto violento, c’è ancora l’intolleranza per la negazione della regola del dominio maschile. Perché sempre, se una donna si sottrae a lui, per un uomo si tratta, come annotò il giudice del delitto Parolisi, di “ennesima umiliazione” a cui, sembra sottinteso, si reagisce come si reagisce. A riprova del fatto che tutti gli strumenti critici della nostra modernità non sono sufficienti per scardinare convinzioni vecchie di secoli. E che sacche di arcaismo, di arretratezza morale ancor più che culturale, di primitivismo delle relazioni uomo-donna persistono, creano danni e possono dilagare precipitando coppie e fami
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