Viaggio ad Avetrana, dove il verdetto non ha aspettato i giudici

Viaggio ad Avetrana, dove il verdetto non ha aspettato i giudici
di Mario Diliberto
Mercoledì 22 Febbraio 2017, 09:40 - Ultimo agg. 13:34
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Ad Avetrana il tempo sembra essersi fermato. Come se i sette anni dalla scomparsa della piccola Sarah Scazzi non fossero trascorsi realmente. Da quel 26 agosto del 2010 nella cittadina, ultimo baluardo ad Oriente della provincia di Taranto, apparentemente non è cambiato nulla. Con la comunità rimasta immobile a contemplare eventi e commenti scatenati dall'onda lunga e anomala dell'attenzione mediatica calamitata dal delitto. Un ciclone che da queste parti, alla fine, ci si è abituati ad ignorare. Ma anche a condannare. Soprattutto per il marchio indelebile che ha lasciato sul paese.

«La giustizia ha fatto il suo corso, ma su di noi abbiamo letto troppe cose ingiuste». Antonio Minò, sindaco di Avetrana, si allunga sulla poltrona del suo ufficio in Municipio e regala un sorriso appena accennato. L'ultima sentenza sull'omicidio che ha reso celebre la sua cittadina più di qualsiasi campagna promozionale è stata letta da poche ore. Il verdetto che inchioda i colpevoli è stato confermato. Ma lui non vuole aggiungere altro. E le sue parole rispecchiano fedelmente il pensiero delle 7.090 anime del paese del Salento in cui si consumò il dramma di Sarah, strangolata a quindici anni dalla zia Cosimina e dalla cugina Sabrina. Le assassine che tutta Italia ha imparato ad odiare. Loro da ieri si tormentano nella cella del carcere di Taranto, rimuginando sulla condanna all'ergastolo consacrata dalla Corte di Cassazione.

Il paese, invece, vuole dimenticarle, perché gli avetranesi quella condanna l'hanno pronunciata da tempo. E anche perché i problemi da affrontare sono altri. I ragazzi hanno poco lavoro e troppo spesso sono costretti a partire per cercare fortuna. «Abbiamo perso una intera generazione», sospira un anziano mentre arringa un crocchio nella piazza centrale e osserva il cielo limpido. Il sole, anche nell'ultimo giorno del caso giudiziario che ha appassionato la nazione, ha voluto baciare le case basse e i tetti spioventi con le tegole rosse. Come quelle della villetta di via Deledda, regno dei Misseri e teatro dell'assassinio di Sarah. Proprio come quel maledetto 26 agosto, quando un buco nero sembrò ingoiare quello scricciolo biondo mentre camminava nelle strade semideserte. Ieri come allora, lungo i 500 metri di strada percorsi a piedi dalla sua abitazione sino a quella della cugina, in cui venne uccisa, il panorama era proprio lo stesso. Con finestre e serrande sbarrate. Una chiusura totale verso l'esterno. Così si fa presto a comprendere perché quel giorno pochi videro e pochissimi parlarono. Mentre molti spiegarono di non aver nulla da raccontare.

Un argomento che ad Avetrana non piace proprio a nessuno. «Troppe volte si è letto che siamo omertosi, ma questo non è vero», tuona il sindaco Minò, spegnendo anche il suo timido sorriso. Ieri, però, nella cittadina i sentimenti predominanti erano l'indifferenza e il malcelato fastidio verso i giornalisti che si sono presentati con la puntualità di un orologio svizzero. Sul delitto qui si hanno le idee chiare da tempo e il verdetto per Sabrina e sua madre è stato emesso e digerito. Colpevoli senza ombra di dubbio. Sono state loro ad uccidere, mosse da un crogiolo fatto di odio e gelosia per Sarah. Lei piccola e bella avrebbe attirato la simpatia dei ragazzi della comitiva del Pub 102. In particolare del bell'Ivano Russo. Il giovane che tanto piaceva alla cugina più grande, ma anche meno avvenente.
Di quella allegra brigata non è rimasto nulla. La comitiva è stata polverizzata da una diaspora che ha colpito molti comprimari del giallo. Mentre Ivano è tornato a lavorare tra i fornelli della sua pizzeria di Manduria. Qualcuno, ancora, gli chiede di Sarah, di Sabrina e di quei giorni terribili che hanno preceduto e seguito il ritrovamento del cadavere nel pozzo, in aperta campagna. Ma lui non risponde. O se risponde lo fa per chiedere di essere lasciato in pace.

Ivano e tanti altri protagonisti del giallo di Avetrana ieri si sono eclissati. Forse per sfuggire alla curiosità della gente. Mentre il pensiero del giorno è stato focalizzato su Michele Misseri, per tutti Zio Miche'. Per lui non c'è odio. Anzi. È quasi ritenuto la vittima di moglie e figlia, arpie rinchiuse in carcere. «Era un grande lavoratore, una persona onesta. E non avrebbe fatto male a una mosca. Ha tentato e cerca ancora di sacrificarsi per salvare la figlia. Ma nessuno qui crede che possa essere stato lui ad uccidere Sarah». A parlare è un vicino che si affaccia con discrezione dal suo cancello a pochi metri dalla villa dell'orrore. Il lungo giorno di Michele è stato scandito dalla discreta curiosità dei compaesani, oltre che dal presidio di telecamere dinanzi alla casa. «Per noi è una questione di rispetto», spiega il vicino mentre un amico in auto si ferma e scandisce Ni l'hannu purtati?, riferendosi all'imminente arresto di Misseri. Non fa in tempo a parlare che nella strada piombano i carabinieri e anche per zio Michele si compie l'ultimo atto. Per lui e per i vicini il carcere è una specie di liberazione. Nel penitenziario, infatti, Michele paradossalmente sarà meno solo. Da quando è tornato libero, nonostante i proclami di colpevolezza, ha vissuto come uno zombie. Ignorato da tutti. Dai colpevolisti e da quanti hanno sempre creduto nella colpevolezza di Sabrina e Cosima ritenendo lui una vittima. La seconda vittima dopo la povera Sarah.

Ad Avetrana era facile vederlo alla guida del suo trattore, mentre si recava in campagna o al rientro in paese. Una volta venne intercettato da un gruppo di turisti. Erano diretti al mare e pensarono bene di fare una capatina ad Avetrana per conoscere di persona i luoghi del delitto. Alla vista di zio Michele i turisti non riuscirono a resistere all'idea di un bel selfie con quel personaggio da criminal case, rimediando gli improperi del contadino. «Purtroppo racconta il vicino - non è stato un caso isolato. Via Deledda è un teatro degli orrori all'aperto, ma questa gente ci fa pena. Non ha rispetto».