Camorra e mafia: da Zagaria a Messina Denaro, ecco i rifugi dei grandi boss della criminalità

Protetti dalla rete di complicità ma sempre nel proprio territorio

Latitanti a casa loro
Latitanti a casa loro
di Valentino Di Giacomo
Martedì 17 Gennaio 2023, 23:45 - Ultimo agg. 18 Gennaio, 15:18
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C’è chi aveva un’intera stanza che scorrendo su dei binari si muoveva con un motore idraulico per celare il bunker, chi invece si nascondeva in remote masserie di paesini siciliani per non farsi trovare. Matteo Messina Denaro, invece, abitava in un appartamento ben rifinito a Campobello di Mazara, a meno di 10 chilometri dalla natia Castelvetrano e da mesi si recava nella clinica di Palermo dove è stato catturato. Non proprio la vita che ci si aspetta da un super-latitante. Una vita a metà tra quella appena più sfarzosa di Totò Riina e quella spartana di Bernardo Provenzano, i predecessori a capo della cupola mafiosa. Non solo i boss, ma anche i loro covi e rifugi sono ormai entrati nell’immaginario collettivo.

Totò Riina abitava in una grande villa di Palermo, in via Bernini, oggi diventata una caserma dei carabinieri. Con i vicini di casa Totò “u curtu” aveva fatto trapelare di essere un dirigente dell’Anas, si spostava soltanto accompagnato da un autista. Nella grande villa con giardino “il capo dei capi” ha abitato per 20 anni con sua moglie Antonietta Bagarella e i suoi figli. Tre grandi palme all’esterno e una scala con dieci grandi gradoni, quasi da cattedrale, per raggiungere l’ingresso principale. Chi doveva parlare con “u curtu” doveva salire quello scalone per ricordarsi la reverenza che si deve a un capo-mafia. Vita spartana, invece, quella di Bernardo Provenzano. Trovato in una masseria di Corleone, cinquanta metri quadri tirati su alla buona, un terrazzino con una pergola per fare ombra sul cementato sbrecciato. Alle spalle della casa un ricovero per animali, 20 metri per 12, per metà pieno di balle di paglia, sulle quali era adagiata una rete da letto a due piazze. Sporcizia ovunque, poi una bibbia e una macchina da scrivere per scrivere i celeberrimi pizzini. 

Diversa la storia per i boss della camorra e della ‘ndrangheta. Soprattutto i capoclan dei casalesi erano ingegnosissimi nella costruzione dei propri covi. Francesco Schiavone, alias “Sandokan”, a Casal di Principe si era fatto costruire sotto la sua villa un appartamento segreto di tre stanze, con bagno, cucina e accessoriato con tutti i confort.

Un appartamento di cento metri quadrati senza porte e finestre, ma con cunicoli e grotte naturali che la polizia utilizzò al momento dell’arresto per riempirlo di gas lacrimogeno ed indurre Schiavone ad arrendersi.

Il bunker era illuminato da luci al neon, pavimenti in maiolica bianca, un videocitofono e due accessi non identificabili dall’esterno. Per accedere al covo del boss le porte si aprivano facendo scorrere pareti di cemento armato su dei binari. In caso di perquisizioni, il boss, attraverso una botola nascosta in sala da pranzo, raggiungeva i cunicoli che conducevano all’ultimo rifugio, in cui erano montate delle tende da campo. In quei cento metri Schiavone si dedicava alla pittura, ma anche alla lettura di libri sul Regno delle due Sicilie, Napoleone e Mussolini. 

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L’altro boss Michele Zagaria non badò a spese a Casapesenna per rifinire il suo rifugio. Un bunker dai costosi accessori: un televisore al plasma da 60 pollici, una seconda tv nel bagno, stereo e decoder satellitare, ma soprattutto un’intera stanza si muoveva grazie ad un congegno telecomandato per celare il suo rifugio. Nessuna opera di alta ingegneria per l’altro boss dei casalesi Antonio Iovine, alias ‘O Ninno. Per lui una villetta di due piani a Casal di Principe, nel salotto finemente arredato con tanto di poltrone in pelle, un caminetto e una panca da palestra. Sul suo comodino furono ritrovate diverse schedine del Superenalotto. Vita spartana per il ras della camorra Marco Di Lauro, anche se prima del suo arresto figurava al secondo posto tra i latitanti più ricercati proprio dopo Messina Denaro. Il rampollo dei Di Lauro fu trovato in un umile appartamento di via Emilio Scaglione a Chiaiano, protetto da un intero quartiere senza mai rinunciare ad andare dal suo barbiere di fiducia.

Tra gli investigatori è passato alla storia il rifugio di Antonio Cardillo, latitante del clan Lo Russo di Miano, a Napoli. Alla sua stanza-covo si accedeva con un telecomando che apriva uno specchio collocato nella camera da letto dell’appartamento principale. Ora, invece, molti di questi boss, hanno stanze molto simili. Tutte collocate in  penitenziari di massima sicurezza.

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