Carceri minorili, le due Italie: l’80% dei ragazzi è del Sud

Carceri minorili, le due Italie: l’80% dei ragazzi è del Sud
di Francesco Lo Dico
Venerdì 9 Settembre 2016, 08:28 - Ultimo agg. 12:04
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Sono i 240 meridionali reclusi oggi nei sedici istituti penitenziari minorili italiani. E sono più irredimibili degli altri. L’amara realtà emerge dai numeri: su 503 detenuti oggi ospitati dalle carceri minorili nazionali, al netto di 224 stranieri, sono attualmente reclusi 279 italiani. Ma di questi, soltanto 40 provengono dal Centro e dal Nord, mentre gli altri 239 sono tutti giovani del Sud. Otto su dieci.

Viene dal Meridione l’ottanta per cento dei giovani italiani che oggi guarda il mondo di fuori dal carcere. E per buona parte di loro, le speranze di uscirne presto per accedere a misure alternative di reinserimento, resta una chimera. In fondo è normale, ci hanno detto in molti. Dietro le sbarre ci sono più meridionali perché al Sud c’è la ‘ndrangheta, c’è la mafia, c’è la camorra. Al Sud si abusa senza scrupoli della manovalanza minorile, ergo i meridionali se la sono cercata. Non fosse che spesso, le risposte più semplici sono quelle più sbagliate. «In realtà - spiega al Mattino Alessio Scandurra, curatore insieme a Susanna Marietti del Terzo Rapporto di Antigone sugli Ipm - la selezione dei minori destinati al carcere non avviene purtroppo in base alla pericolosità dei ragazzi o alla gravità delle loro condotte».

«A prevalere - chiosa - non sono i reati più gravi ma i casi più estremi. E cioè quelli per i quali si suppone un recupero più difficile». La nostra Costituzione prescrive all’articolo 27 che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Il carcere minorile dovrebbe pertanto essere, più di quello per gli adulti, un luogo di transito verso nuove opportunità di redenzione. Opportunità come la messa alla prova, pensata nel 1988 per i minori e dal 2014 applicata anche agli adulti con ottimi esiti.

L’istituto non è soltanto un’alternativa al carcere, ma anche allo stesso processo: si tratta in pratica di inserire il ragazzo in una comunità e vedere come si comporta. Se tutto procede nel verso giusto, si può arrivare all’estinzione del reato. I risultati sono stati finora entusiasmanti: nel 2014 la messa alla prova ha salvato l’80 per cento dei minori coinvolti. Ma se recuperare i giovani del Nord è più facile per via di una maggiore disponibilità di risorse, di chance lavorative più consistenti e di contesti operativi più favorevoli, al Sud l’impresa è decisamente più ardua. «Nelle periferie delle grandi città del Sud - osserva Isaia Sales, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli - il giovane si muove in un contesto aggregato in cui la violenza è più facilmente replicabile. Non così al Nord, dove i reati dei giovani minorenni sono più spesso frutto di singoli “scoppi” più facili da risanare».

L’abitudine a delinquere è più difficile da sradicare. «I disperati delle periferie delle grandi città del Sud hanno a disposizione meno alternative, meno risorse e meno supporto delle famiglie», sintetizza Scandurra. Si chiama carcere la risposta più frequente che i giovani meridionali si sentono dare. Si chiama così per via di ragioni quantitative, qualitative e logistiche. A fronte di un elevato tasso di criminalità minorile, le strutture di accoglienza del Sud sono nel complesso insufficienti ad assorbire la domanda, e assai meno variegate di quanto non richiederebbero le esigenze riabilitative dei singoli minori. «Anche se presso gli enti locali c’è attenzione - chiarisce l’operatore di Antigone - si fa estrema fatica a trovare collocazioni che rappresentino per i giovani meridionali delle vere opportunità». E ci sono poi difficoltà logistiche sovente insuperabili. Ricollocare un minore del Sud nel suo territorio di appartenenza è molto rischioso, in quanto la pressione dell’ambiente circostante nel quale ha sempre navigato può minare il percorso di recupero. E trasferirlo in una comunità del Centro Nord è altrettanto impervio.


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