Un premio al coraggio
di ricominciare

Un premio al coraggio di ricominciare
di Titti Marrone
Giovedì 24 Novembre 2016, 08:13
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Per singolare coincidenza, in una manciata di ore due destini paralleli e allo stesso modo atroci, frutto di due scellerate volontà maschili ugualmente speculari, si sono incrociati e riflessi uno nell'altro. Sono quelli di Carla Caiazzo, la giovane donna di Pozzuoli sfigurata dall'alcol in fiamme lanciato lo scorso febbraio da Paolo Pietropaolo quando era incinta di otto mesi, e di Lucia Annibali, di Urbino, deturpata per sempre il 16 aprile 2013 da una coppia di trucidi «bravi» assoldati da Luca Varani. Per Pietropaolo è stata emessa ieri una sentenza che lo condanna, in primo grado, a una pena più alta di quella richiesta dalla Procura, 18 anni invece di 15. Poche ore prima, la Cassazione aveva rese note le motivazioni della sentenza con cui, il 10 maggio scorso, è stata confermata a Luca Varani la pena di 20 anni - il massimo previsto dal codice - per tentato omicidio e stalking.

Così si motiva: «Le lesioni inferte a Lucia Annibali erano tanto gravi da mettere in pericolo la sua vita», e inoltre «il regime di vita, l'assenza di pentimento, l'assunzione di stupefacenti» del suo ex, che pure era stato come Lucia un avvocato, hanno orientato il giudice verso la massima pena. In aggiunta a ciò, il film «Io ci sono» andato in onda martedì sera su Raiuno restituiva, con la storia di Lucia Annibali, il significato pieno dell'espressione «omicidio d'identità». Perché la bellezza tenera di Cristiana Capotondi prestata a raccontare la bellezza perduta di Lucia, poi alterata con gli escamotage della fiction a rappresentare l'insulto dell'acido buttato in faccia, ha reso straordinariamente il senso definitivo di quel danno. Una volta tanto, la fiction si è allineata alla realtà e l'ha ben accudita, e chissà che cosa avranno provato Lucia e Carla nel guardare nell'attrice il riflesso di quel dolore che - certo - nessuna sentenza potrà mai cancellare. Proprio come nessun giudice potrà porre riparo ai danni del ricordo, restituito ogni momento dell'incontro con l'immagine del proprio volto deformato, irriconoscibile nel riflesso dello specchio.

Ma le storie delle due donne finiscono per assomigliarsi anche perché disegnano una violenza maschile identica. Sia Luca che Paolo, come si evince dalle ricostruzioni degli inquirenti, avrebbero fatto di frequente uso di stupefacenti o ne avrebbero assunti prima che l'acido fosse lanciato, cercando lì una stampella per il proprio io maschile ferito. E a meno di non voler prendere per buone certe stiracchiate e laconiche dichiarazioni di pentimento riferite dagli avvocati, tutti e due non sembrano provare vero rimorso per i loro atti. Né gli uomini dell'acido, né chi insinua, in perdurante mormorio alle spalle delle donne, una «colpa loro» sempre sottintesa, può sopportare l'inaudita provocazione di una pretesa di libertà che una parte dell'inconscio collettivo continua a considerare deplorevole.

Allora, ha ragione Carla a suggerire che si pensi a una pena in più. Proprio da lei infatti è venuto, qualche mese fa, l'impulso di una lettera al presidente Mattarella, per chiedere di stimolare il Parlamento perché si introduca un «omicidio d'identità» come nuovo reato. Per il danno permanente subìto da lei e Lucia, perché non sono né saranno mai più quelle di prima, due giovani donne assai belle e proprio lì colpite, nel loro risplendere dei bagliori di vita ben visibili nelle foto del «prima», nel desiderio di vivere ciascuna la propria senza doverla per forza segregare in un amore malato.

Per dire che una donna sfregiata viene uccisa in quell'«io» che l'assassino della bellezza, non potendola possedere, ha inteso cancellare, umiliandola e rovesciandola nel contrario. Infatti, «mi ha ucciso lasciandomi viva» fu una delle frasi dette da Carla dopo i primi giorni tragici dell'immediato ricovero, quando si temette che la vita della sua bimba - sua e dello sfregiatore - potesse essere compromessa. Ora la sentenza di 18 anni dati a Pietropaolo farà discutere, al primo grado di giudizio seguiranno gli altri, e del caso di Carla si continuerà a parlare. Intanto, però, quella sentenza delinea un biasimo impossibile da ignorare su un comportamento violento definito come «tentato omicidio» e, come nel caso della sentenza Annibaldi, scava un solco che stabilisce un «prima» e un «dopo».

Prima: appena nel 1983, il brigadiere Angelo La Gala, grazie al giudice «ammazzasentenze» Carnevale, ebbe dimezzata a due anni, invece di quattro, la già lievissima pena per aveva ucciso la moglie a sprangate. E il giudice accolse pure la richiesta dei legali di non «sporcare» la sua fedina penale con la condanna. Dopo: la sentenza sul caso Annibali, e quella di ieri sulla storia di Carla, possono far sì che quel biasimo sancito per legge si allarghi, diventi più condiviso. Le donne oggetto di violenza che sfiora la morte trarranno forse da quei «vent'anni» e «diciotto anni» un po' più di coraggio per denunciare senza sentirsi sole. E per non rendere inutile il dolore vissuto da Carla, da Lucia Annibali e dalle altre, nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne di domani, si potrebbe rilanciare la richiesta di una legge che punisca questo nuovo ma antico reato: l'omicidio d'identità come atto massimamente criminale.
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