Costituzione, le ragioni
per cambiare

di Biagio de Giovanni
Sabato 22 Luglio 2017, 23:55 - Ultimo agg. 23 Luglio, 09:40
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Angelo Panebianco e Valerio Onida hanno aperto, sulle pagine del Corriere della Sera, un dibattito di grande interesse di cui riassumo l’essenziale, e che sarebbe quanto mai utile che si sviluppasse come vero elemento di un serio confronto, rispetto al quale ci muoviamo quasi sempre tra nostalgie di tempi perduti. È Panebianco che vi ha dato inizio con un editoriale scritto con quasi provocatoria chiarezza (il 21 luglio), trattandosi nientemeno che della Costituzione della Repubblica e della necessità di mutarne i principii fondanti, e non solo la seconda parte che tocca l’organizzazione dello Stato, come si è provato a fare, però fallendo, il 4 dicembre scorso. A cominciare dall’art.1: perché non fondare la Costituzione sulla libertà piuttosto che sul lavoro? Che a me pare una bella idea.

E così via esemplificando su principii ugualmente fondanti come la ridefinizione del diritto di proprietà, la forma di progressività delle imposte, problema nato in occasione del progetto di flat tax, e altro ancora. Il tutto con una attitudine evidente a rimettere in discussione il sistema dei diritti sociali del welfare italiano come oggi formulati nel testo costituzionale. Insomma, una forte iniezione di cultura liberale che, fra Democrazia cristiana e partito comunista, mancò nel 1946. E la tesi è drastica: inutile illudersi di poter mutare solo la seconda parte della Costituzione, data la connessione stretta dell’insieme, e dato che molti dei principi generali che vi sono enunciati non vanno più d’accordo con l’andamento dei processi storico-politici. Oggi ci sarebbe la necessità di un mutamento, sarà possibile? Veloce, a giro di posta si potrebbe dire, la prevedibile risposta di Valerio Onida (il 22 luglio): non se ne parla nemmeno, i principii dello Stato sociale sono nel loro insieme intoccabili, pena la crisi della democrazia italiana che è stata costruita su di essi. Con un finale così: le proposte di Panebianco individuano una posizione ideologica di retroguardia, e comunque, nel caso, non basterebbe più il processo di revisione costituzionale, ma sarebbe necessario mettere in campo un vero e proprio potere costituente, l’unico legittimato alle modifiche dei principii. E questo va bene, ma non è proprio di questo che oggi si deve parlare?

Voglio provare a dire la mia opinione, lasciando stare, per la verità, avanguardie e retroguardie, parole oggi di assai difficile collocazione topica. Vorrei piuttosto immettere nella discussione un problema che non è presente nei due scritti: l’impossibilità di giudicare compiutamente i termini del problema restando dentro i confini della Costituzione nazionale, perché, pur essendo stata formalmente bocciato il testo di una Costituzione europea dai referendum franco-olandesi del 2005, il combinato-disposto del Trattato di Lisbona+Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea forma qualcosa che è assai vicino a una Costituzione: vogliamo chiamarla Costituzione materiale dell’Europa? E il contrasto tra essa e le costituzionali nazionali si risolve in generale a favore della prima, come la Corte di Giustizia europea continuamente conferma, tanto che si è sentito il bisogno di codificare i cosiddetti controlimiti che entrano in funzione nei casi in cui, a certe condizioni, il dettato della Costituzione nazionale prevale. Come modifica il quadro questa situazione?

Sicuramente in modo assai profondo, per cui il primo tema da discutere è proprio questo, e mi sembra una omissione non averlo almeno proposto alla discussione. A Valerio Onida direi: la Costituzione italiana è già inattuabile in alcuni dei principii che afferma, in contrasto, salvo che nelle formulazioni più generali e ormai quasi retoriche, con il quadro dell’ordo-liberalismo che governa la Costituzione materiale d’Europa, comprese le regolamentazioni fuori Trattato, eppur cogenti, che toccano la moneta unica, per far l’esempio più clamoroso. E i diritti sociali – che vanno diventando diritti senza Stato - fluttuano ormai in uno spazio sempre più astratto e sempre meno corrispondente alla effettiva evoluzione del mercato del lavoro e dello stesso concetto di lavoro. Il costituzionalismo è in crisi, come si lamentano i costituzionalisti in stragrande maggioranza, ma la difesa a oltranza della costituzione del 1946 rischia di fare da sentinella a una postazione sempre più vuota. Dichiarare aperta la crisi delle costituzionali nazionali per la presenza della sovranazionalità, implica formulare certo in modo nuovo il tema della sovranità nazionale, ma non immaginare che si vada per necessità nel regno dell’arbitrio, come sembrano pensare settori del conservatorismo nazionale a oltranza.

Si tratta di ripensare quasi tutto, di ridefinire sia i principii (se certi principii diventano inattuabili e non mutano, le democrazie incominciano a girare a vuoto) sia le forme della decisione che devono diventare assai più incisive, tutto fuoriuscito dal livello autarchico nel quale queste cose sono nate.
Perciò, in punto di principiio, verrebbe da dire, Panebianco ha ragioni da vendere sulla necessità del mutamento, anche se i nuovi equilibri dovranno formarsi tenendo conto di quel livello che l’avvio della discussione ha omesso. E sì, proprio così, è tempo di nuovo potere costituente, tra nazione ed Europa però, pena l’avvitarsi della crisi in una via senza uscita. Bisogna ricollocare la sovranità costituzionale in uno spazio nuovo con tutto ciò che di diverso e di nuovo può esser necessario: ne va dello stesso destino delle democrazie. Di sicuro, il vecchio conservatorismo costituzionale va in archivio e gli estremi bastioni di resistenza apprestati non fanno bene all’Italia. Eppure, sono essi che sembrano ancora dominare, e, nello spazio di una nuova incertezza, la politica muore e i vecchi equilibri permangono nel vuoto, come vermi in un corpo malato.
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