«Ero un marito violento e potevo uccidere mia moglie, così ho curato la mia rabbia»

«Ero un marito violento e potevo uccidere mia moglie, così ho curato la mia rabbia»
di Ettore Mautone
Martedì 25 Luglio 2017, 18:22 - Ultimo agg. 23:57
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Cosa spinge un professionista ad alzare le mani sulla propria moglie? Quale corto circuito emotivo fa esplodere la rabbia di un impiegato come quella di un pensionato, ovvero di un disoccupato, fino ad annientare fidanzate e compagne? Quale imbuto dei sentimenti sta alla base dell'ingorgo che intasa i pensieri di chi agisce violenza verso un proprio familiare, figli compresi? Sono in tanti a chiederselo leggendo le agghiaccianti notizie che riempiono le cronache di questi giorni in un'escalation che ormai da anni non concede tregua. Violenza in famiglia: femminicidi, lesioni, benzina, acido e coltelli. La banalità del male: le testimonianze sono tante ma danno voce soprattutto alle vittime. Quasi sempre le donne. Ma è dalla voce di uno di loro, raccolta dal Mattino, che s'intravede lo spaccato del mondo dei maschi maltrattanti. Un universo inesplorato a cui bisognerebbe rivolgere la massima attenzione sociale. Per educare e prevenire. Mario Esposito (il nome è di fantasia) è un impiegato di 35 anni di media cultura: dopo studi superiori (liceo scientifico) e l'iscrizione a ingegneria dove ha superato solo i primi esami sacrificati al lavoro ha sposato Maria, conosciuta sui banchi dell'università. Una coppia che sembrava solida da cui sono nati Francesco e Filippo, che hanno 7 e 10 anni. Mario racconta la sua esperienza. «Per un uomo è tutto più difficile, raccontarsi, parlare, ammettere colpe è come sollevare macigni».

Come è arrivato al percorso di sostegno dell'Aied?
«Su suggerimento di una mia carissima amica d'infanzia, della quale ho stima e piena fiducia. È stata lei a spingermi a frequentare il gruppo di consapevolezza. A mia moglie non avrei mai dato ascolto». 
E poi?
«Ho iniziato ed è stato un graduale capire che qualcosa del mio comportamento andava rivisto. Comunque non ho mai alzato le mani né su mia moglie né sui miei figli».
Cosa faceva?
«Lavoravo tutto il giorno. Mia moglie, che al contrario di me è laureata, stava a casa. A badare ai figli. Poi, per nulla, esplodeva la mia rabbia. Sbattevo i pugni, urlavo, chiedevo conto delle spese di casa, controllavo il cellulare per vedere quante telefonate avesse fatto e a chi. Consideravo mia moglie una nullafacente presuntuosa che al mio ritorno non aveva nemmeno approntato la cena. Ricordo tante urla, da perdere la voce, feroci litigate con offese, piatti rotti, pugni sul tavolo e ai muri. Qualche straccio gettato in faccia. Mai schiaffi, mai. Adesso ho capito che senza un lavoro di consapevolezza, senza una elaborazione e uno sfogo, la rabbia può diventare incontrollabile». 
Come mai succedeva? 
«Al ritorno dal lavoro ero esausto, accumulavo stress. Vedevo mia moglie trastullarsi tra ricette e interessi che ritenevo superficiali. Dopo un po' mi irritavano anche i bambini. Avvertivo una rabbia sorda, la totale distanza tra il mio mondo interiore e nessun rispetto per la fatica e i miei sacrifici. Sentivo tutto il peso delle responsabilità della famiglia: spese, bollette, viaggi e vacanze, la macchina, la spesa, i divertimenti. Tutto su di me. Mia moglie non dava segni di preoccupazioni. Per lei, avere la casa donatale dal padre la faceva sentire a posto. A volte era sarcastica, provocatoria. Mi sentivo umiliato, insoddisfatto. Ritenevo che tutti dovessero badare a me. Ero io a portare i soldi a casa. Chiedevo conto della spesa, delle ciliegie troppo costose acquistate sotto casa, anziché al mercato. Credevo di essere virile e invece ero solo fragile e inadeguato».
E i suoi figli?
«Sono stati la leva su cui il gruppo di educatori ha agito per far scattare la molla che mi ha spinto al cambiamento».
Può spiegarlo meglio?
«I primi colloqui sono stati in gruppo. Storie tutto sommato simili che servono a raccontare la verità. Poi con i terapeuti abbiamo stabilito un lavoro comune. Mi hanno fatto capire, in un paio di occasioni in presenza dei miei familiari, che avevano paura di me, che li terrorizzavo con i miei scatti d'ira, che non ero un padre adeguato e che non potevo insegnare loro nulla. I miei figli sono la mia vita. Il solo pensiero di deluderli, che anche loro potessero da adulti maltrattare le donne mi ha aperto un mondo».
Quale sentimento ha provato?
«Vergogna. Non credevo di essere un intimidatore di professione. Sono meccanismi che si radicano da bambini quando si cerca di farsi valere nel gruppo».
E la rabbia?
«Dopo un po' ho imparato a gestirla. È un sentimento umano. Ma quando arriva bisogna allontanarsi. Uscire e fare due passi per riflettere. Imparare a dire: mi sento arrabbiato e spiegare i motivi. Poi, cercare di sciogliere i nodi».
E quando non si riesce?
«In effetti mi sono reso conto che con mia moglie non avevo né affinità né interessi. Spenta la passione non c'era più amore, sostituito da rabbia e risentimenti per una oggettiva mancanza di rispetto verso di me, il mio lavoro, il mio mondo di origine».
E allora?
«Abbiamo provato a ricominciare. Ma non è andata. Ci stiamo separando».
Altri conflitti?
«Avrebbero potuto esserci. I soldi, il mantenimento, l'affido dei figli, un sistema fatto di avvocati che spesso aizzano invece di mettere pace. Avevo paura. Da mia moglie ricevevo solo provocazioni. Poi grazie allo stesso percorso iniziale siamo riusciti a prendere lo stesso avvocato, a trovare una strada per dividere le nostre strade con serenità. I miei figli sono felici». 
Nessuna difficoltà?
«Molte difficoltà e anche la tentazione del conflitto. Ma ora non attacca più. Ho due figli, devo mantenerli. Mia moglie ha la casa e una laurea. Ha accettato di mettersi in gioco e di trovare lavoro. È giusto così. Magari ci ritroveremo. Ho imparato a trattare mia moglie da persona. E nessuna offesa mi scalfisce più». 
Quale è il mostro da cui si è liberato?
«L'incapacità di riconoscere la tendenza a perdere le staffe come un comportamento violento. Ho imparato a dire le parole giuste e fare le cose giuste. Ho capito che molti dei comportamenti che credevo legittimi erano puerili e assurdi».
Un consiglio a chi è violento con le donne?
«Guardarsi dentro, interrogarsi, chiedersi se ne vale la pena.

Farsi aiutare. I violenti non sono uomini forti, uomini veri ma deboli, poveracci che rischiano di rovinare e rovinarsi la vita». 

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