Il divorzio
tra cose e parole

di Biagio de Giovanni
Giovedì 22 Febbraio 2018, 08:21
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Se ci fosse data la possibilità di governare i ritmi del tempo, dovremmo dire: venga oggi, e se non oggi al massimo domani, il 4 marzo! Almeno avremo davanti agli occhi la distesa dei risultati, e a quel punto si vedrà. Il tempo, invece, che ineluttabilmente ci divide da quella data, appare pericolosamente inclinato sulla via di una babelica confusione delle lingue e dell’emergere, dal vecchio sottosuolo italico, di un sovversivismo di strada che si va facendo anche, sintomaticamente, violenza. Non intendo lanciare nessun allarme su questo fronte, ma ciò che è avvenuto a Palermo e a Perugia, – l’aggressione selvaggia al rappresentante provinciale di Forza Nuova e il ferimento di due attacchini di manifesti di «Potere al popolo», senza dimenticare Macerata e la tentata strage - indica il superamento di quel limite che divide la violenza del linguaggio dal passaggio squadristico all’azione.
Devo dire, con grande sincerità, che la cosa mi sorprende assai poco. Il linguaggio utilizzato nella campagna elettorale, soprattutto da alcune parti concorrenti, ma che poi è diffuso generalmente in quel malessere dove tutti sono contro tutti, è talmente distruttivo e carico di disprezzo, talmente irresponsabile nell’indicare i luoghi dove si concentra il male, che poca meraviglia suscita che qualcuno sia spinto a passare all’azione nei confronti di quei luoghi o persone dove, nel suo giudizio, quel male si manifesta, per dir così, al suo meglio.

 

Nella confusione generale, tornano pure i fantasmi di una storia esaurita, che appartiene irrimediabilmente al passato, e qui devo dire che sarei assai più prudente, nel richiamare, come oscura minaccia, fatti tragici che appartengono a quel passato, oggetti ormai di liberatorio giudizio storiografico. Chi enfatizza questa possibilità, finisce con il nascondere, volente o no, le ragioni del nuovo emergere di un gran malessere, i tratti anche inediti annidati nella patologia del linguaggio politico e nelle forme primordiali dei contrasti che esso disegna.
Che la lotta politica abbia sempre avuto il carattere del disconoscimento, e che dappertutto nel mondo esso sia oggi in espansione - nel caos indotto dalla prima crisi politica della globalizzazione tuttora in corso - non è una buona ragione per ignorare i tratti italiani di questo stato di cose. E il tratto principale sta, da noi, nella perdita di significato delle parole che si pronunciano. Nella perdita di potere del «significato», se così si può dire. È come scomparsa ogni autorità o cultura che dia confini al significato delle parole e quindi anche alla tensione tra i principii che attraverso di esse dovrebbero esprimersi. La scomparsa è dovuta sia all’oggettivo disgregarsi delle strutture e aggregazioni politiche, dove la parole nascevano da una tradizione e, appunto, da una cultura, sia all’uso dissennato ed estremo di un linguaggio che si è reso autonomo dalle cose che avvengono. 
Il campo elettorale si presenta come un «manicomio di Babilonia, da mille finestre si urlano contemporaneamente al passante mille voci, pensieri, musiche diverse, ed è chiaro che l’individuo in tutto ciò diventa il crogiuolo di motivi anarchici e la morale si dissolve insieme allo spirito», per citare la diagnosi di un grande scrittore del Novecento che parlava di Europa. Le parole e le cose. Si può esser chiamati ladri senza aver rubato, assassini senza aver ucciso persona, per indicare casi estremi; ma soprattutto la distanza tra le parole e le cose diventa siderale nel crogiuolo delle promesse impossibili, dove pure c’è un tratto di violenza sull’immaginario collettivo di un popolo. Sorprende che, nel mare di parole grevi e inutili, ridondanti e caricaturali, ci sia qualcuno, per fortuna solo qualcuno, che pensi di passare all’azione? Sia perché in alcune parole ha visto l’individuazione del fantasma del nemico assoluto, sia perché, nella confusione generale, afferra che le parole non bastano. È in questi tratti estremi che si può annidare la violenza che sporadicamente si va manifestando.
Dietro tutto ciò, una crisi che ancora pesa sulla società italiana. L’incrinarsi dei vincoli della rappresentazione e della rappresentanza politica. Ma anche la speranza che, passata la tempesta, assestati i risultati, un qualche ordine possa nascere dal caos. L’Italia ha delle riserve, di sicuro, nella vitalità della propria società, nel senso comune di una maggioranza appartata e silenziosa che potrebbe emergere e far valere il peso delle parole che contano, aiutare a ristabilire il nesso fisiologico tra le parole e le cose, ridare confini al “significato”, pane al pane, vino al vino. 
Da tutto questo, l’auspicio iniziale: che giunga al più presto il 4 marzo! 
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