Il paese dei vasi non comunicanti

di Antonio Galdo
Lunedì 23 Gennaio 2017, 23:21 - Ultimo agg. 24 Gennaio, 08:58
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La catena degli errori è lunga, molto lunga. Mettendo in fila, uno dopo l’altro, i vari organismi chiamati in causa dal primo all’ultimo allarme partiti dall’albergo di Rigopiano, si entra nel labirinto di Cnosso dell’Italia burocratica in versione corporativa. Di un Paese dove la macchina dello Stato quando si muove, dentro e fuori l’ordinaria amministrazione, lo fa sempre in ordine sparso, ciascuno rinchiuso nel suo compartimento di competenze, senza un briciolo di coordinamento, di regia, di limpidezza nei ruoli e nelle responsabilità.

Senza che ci sia mai uno, uno solo, che abbia in mano la chiave dell’intero meccanismo. Un esempio? La prima telefonata, di quel maledetto mercoledì 18 gennaio, con la quale si chiede alla Provincia di Pescara una turbina per raggiungere l’albergo ed evacuarlo, risale alle 7 del mattino; ma devono passare quasi 12 ore prima che, alle 18 del pomeriggio, la stessa richiesta arrivi all’Anas. In mezzo, nel buco nero di ore preziose, ci sono telefonate, mail, fax, allerte.

Tanti soggetti in campo, e intanto la valanga assassina può iniziare indisturbata il suo tragico percorso. Mentre sono in corso tre filoni di indagini (mai una sola inchiesta...), abbiamo già capito la gravità dell’errore di sottovalutazione di un sos firmato dall’amministratore dell’albergo e indirizzato al Prefetto di Pescara, al presidente della provincia, al comando della Polizia provinciale, al sindaco del comune di Farindola. Tutti e nessuno, in questa macabra e pirandelliana rincorsa all’aiuto. Sicuramente la dirigente della prefettura di Pescara che ha classificato l’allerta come «una bufala» è stata perlomeno superficiale e irresponsabile. Ma se non vogliamno archiviare la pratica con un perfetto capro espiatorio, domandiamoci: l’errore è tutto qui?

E ancora: quante possibilità vi erano di una risposta efficace e tempestiva? La filiera di questa comunicazione random si sovrappone a una sequenza di attori e di comparse che non agiscono mai, se non nella fase finale dell’emergenza, in coordinamento. Qualsiasi servizio che si traduce in aiuto al cittadino, per una valanga come per un ricovero ospedaliero, viene risucchiato in questa spirale di numeri, di sigle, di comandi più virtuali che reali. L’allarme di Rigopiano è andato a sbattere contro il muro del 118, del 112, del 113 e del 115, senza che a nessuno di questi numeri sia corrisposto uno straccio di soluzione, o perlomeno di presa in carico, in modo completo, del problema. Sono scesi in campo, sempre in ordine sparso, Polizia stradale, Corpo Forestale, Pronto Soccorso alpino, Vigili del fuoco.

E ancora: sindaci, presidenti di enti vari, assessori, dirigenti della Prefettura. La montagna di un gigantesco apparato pubblico ha partorito il topolino dell’immobilismo, non riuscendo neanche, in dodici ore di orologio, a mettere sul campo una turbina. Se ci riflettete, è lo stesso infernale e autolesionista meccanismo che si mette in moto di fronte a un’emergenza sanitaria, come quella che abbiamo visto a proposito delle sciagurate immagini dei ricoveri a terra nell’ospedale di Nola. Chiami un numero per il soccorso, e ne devi fare subito un altro: si contano sulle dita di una mano le regioni in Italia che abbiano un unico coordinamento del 118.

Gli stessi ospedali dello stesso territorio non sono in rete, guai a essere uniti sotto lo stesso comando, si rischia di perdere potere, autonomia, e, ancora peggio, si rischia di essere valutati per le rispettive capacità. Meglio stare tutti a protezione del proprio feudo, di una nicchia dove ci si sente potestà senza controlli e senza reali rendiconti. A forza di spacchettare competenze, ruoli e interventi, abbiamo azzerato, come Stato e come Paese, qualsiasi cultura dell’organizzazione, e siamo stati coerenti in questo cupio dissolvi fino a depotenziare, come dotazione di mezzi e di uomini e come perimetro di comando, perfino un’eccellenza come la Protezione civile made in Italy. Un sistema rodato da una quarantennale esperienza, costruito sulla gestione dell’emergenza dopo i disastri, e cresciuto poi con il tempo anche nella capacità di affrontare la prevenzione.

Dopo l’era Bertolaso, quella macchina è parsa a molti sproporzionata, autoritaria, frutto di un gigantismo dell’emergenza che nascondeva abusi.
Così è stata ridotta, di fatto smontata. Con l’effetto di non avere più una struttura dotata di poteri di intervento eccezionali, e di non avere ancora un sistema di poteri e funzioni diversi coordinati tra loro da un’unica regia. Ecco l’Italia in mezzo al guado di fronte alle calamità, richiusa nel corporativismo delle singole armi, corpi, servizi, guarnigioni, direzioni. Poi siamo anche capaci di diventare eroi, come quei vigili che hanno salvato vite umane con il loro coraggio e con la loro professionalità. Ma l’altra faccia di questo coraggio è un Paese che ha sempre più bisogno di imprese estreme poiché difetta di ordinaria diligenza.
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