In Rete troppa libertà
senza responsabilità

di Massimo Adinolfi
Martedì 5 Settembre 2017, 08:06
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La rete metafora della conoscenza, la rete metafora dell’appartenenza, la rete metafora dell’organizzazione: è curioso che non venga mai in mente la rete come metafora della trappola. Eppure nelle reti, da sempre, si rimane anche intrappolati. I giovani che condividono storie su Instagram – il social più in voga fra i «millennials» – non se ne avvedono, ma la trappola scatta comunque: tu racconti una storia, pubblichi una fotografia, condividi un pettegolezzo, e da quel momento quel brano di vita non ti appartiene più. Hai voglia a cancellarlo, da qualche parte rimane. Qualcuno l’ha salvato, qualcun altro ha fatto lo screenshot, qualcun altro ancora l’ha inoltrato: nulla di ciò che è stato pubblicato scomparirà.

Nel Vangelo di Luca, quando Gesù parla della fine dei tempi, e dei segni grandiosi del cielo che la precederanno, per rassicurare i discepoli dice proprio così: se saprete perseverare nella fede, nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. L’apocalisse è dunque quel tempo in cui tutto sarà restituito così com’è stato. L’«una volta» che diviene «per sempre». Ora quel tempo è venuto, e l’apocalisse si compie sul web: nulla di ciò che viene caricato in rete, infatti, sarà più perduto. Solo che non è la saggezza e la bontà di un dio a gestire questa enorme massa di dati personali: è, più spesso, la cattiveria o semplicemente l’incoscienza degli utenti, che non si fa più alcuno scrupolo di usarli per divertirsi o per denigrare, per spettegolare o per deridere.

Né c’è più alcuna vera privacy. I giovanissimi abituati alle pratiche del social networking trovano del tutto naturale confessare segreti (veri o falsi, non importa) in Rete. Ma un conto è affidarli a una parola confidenziale, un altro è mettere quella stessa parola in una chat. La prima vola via, la seconda resta. Resta, e rimbalza e scappa. Resta, e si moltiplica: altro miracolo della Rete. E, badate, non resta una sciocchezza qualunque; resta invece lo scatto più pruriginoso, la maldicenza più insinuante, l’insulto più offensivo. E soprattutto rimane affidato alla rete un ruolo da sempre cruciale in ogni modello di socievolezza, che è quello della costituzione dei gruppi primari e delle relazioni informali in cui si formano innanzitutto le nostre identità. Si formano, o si distruggono.

Senza che «quelli che c’erano prima» – genitori, educatori, insegnanti, insomma: adulti – ne sappiano più nulla, o quasi. C’è tuttavia un’aria di ineluttabilità intorno al mondo della comunicazione online. Come se qualunque accorgimento tecnologico fosse vano, e qualunque intervento normativo fosse sbagliato. Ma è falsa sia la l’una cosa che l’altra. E si tratta di falsità interessate, perché i gestori degli spazi online sui quali ciascuno di noi pubblica di tutto e di più traggono profitto dai grandi numeri della rete: da ogni clic, da ogni like, da ogni informazione personale che riversiamo sui social. Traggono profitto: profilano potenziali clienti e vendono spazi pubblicitari. Più sanno di noi, meglio ci bersagliano con le loro proposte commerciali.

Più tempo trascorriamo con loro, più sono loro a gestire il nostro tempo. Ora, nonostante il riferimento all’apocalisse, non è un tono apocalittico quello che vorrei assumere. Vorrei solo che si mettesse da parte un po’ di retorica sulle straordinarie opportunità della Rete (ci sono tutte) o sugli spazi di libertà che la Rete assicura (pure quelli ci sono, e sono importanti, anzi ormai irrinunciabili). Ma opportunità e libertà devono fare il paio con responsabilità. Non è possibile che un quotidiano abbia mille motivi di rispondere del proprio operato dinanzi alla legge e le piattaforme pochi, o nessuno. Né può essere – per rimanere al caso delle storie di Instagram, o di Snapchat – che basti il loro automatico cancellarsi nel giro di 24 ore a regalare una sorta di extraterritorialità morale e giuridica. Quella roba rimane, altro che se rimane.

E prima o poi qualcuno la mette nuovamente in giro. Ma ritenere che l’unico responsabile di una diceria sia il ragazzino che sparla con l’amico è fare dell’ipocrisia. Significa non interrogarsi sul modo in cui quella diceria diviene, a volte, una valanga, in grado di schiacciare e far morire di vergogna qualcun altro, come purtroppo è già accaduto. Se i social sono oggi (come effettivamente sono, ancor più dei quotidiani) parte importante dello spazio pubblico, della formazione di opinione e dunque anche della salute complessiva di una società, non può esservi a disciplinarli un’unica regola, che ciascuno risponde per sé. Perché in tutti gli altri luoghi pubblici, aperti al pubblico o destinati al pubblico, vigono delle regole che impongono una certa manutenzione di quegli spazi, e qualche controllo sul loro corretto utilizzo.

Finché le cose vanno più o meno lisce, funestate solo ogni tanto da qualche triste caso di cronaca, quasi non si avverte, peraltro, il paradosso di un luogo pubblico, ormai indispensabile allo stesso funzionamento della democrazia, tenuto in mani tutte private.
Ma quando qualcosa non dovesse più andare per il verso giusto, che si fa? Di nuovo, non è una domanda apocalittica, se non altro perché c’è già adesso un pezzo che sta andando storto: a compromettere – come sta accadendo – la distinzione fra pubblico e privato si compromette, infatti, la democrazia. E allora domando di nuovo: che si fa?
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