La balena blu e l’abisso mostruoso di Fb

di Alessandro Perissinotto
Domenica 28 Maggio 2017, 23:17 - Ultimo agg. 29 Maggio, 08:21
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L'ideatore del macabro gioco chiamato Blue Whale è stato arrestato, pare. È russo, pare. Si chiama Philipp Budeikin, pare. Aggiungere il «pare», prendere in considerazione l’incertezza è d’obbligo, perché l’inafferrabilità del reale è la condizione tipica di tutte le cose che esistono in rete e Blue Whale esiste, su questo non ci sono dubbi, ma, esistendo solo sul web, i contorni della sua esistenza non sono facilmente definibili. Ma torniamo a lui, al presunto ideatore, al giovane che ha indotto al suicidio decine e decine di adolescenti: sostiene di aver architettato tutto il sistema per «purificare la società» dai soggetti facilmente manipolabili.

In altri termini, lui, ventiduenne studente di psicologia, ha condotto un cinico e sadico esperimento di psicologia sociale che gli consentisse di selezionare quelli che lui definisce «scarti biologici». Ed ecco che l’idea dell’esperimento sociale ci riporta, inevitabilmente, al famoso «Stanford Prison Experiment» promosso dallo psicologo Philip Zimbardo nel 1971. Zimbardo prese alcuni studenti universitari (volontari) e, negli scantinati dell’ateneo, fece interpretare ad alcuni il ruolo di carcerati e ad altri quello di secondini: la violenza che si scatenò tra le due fazioni costrinse il ricercatore a porre fine al test dopo appena cinque giorni. Ma quali indicazioni ricaviamo da una simile comparazione? La prima, ovvia, è che tra uno psicopatico, Budeikin, e uno studioso, Zimbardo, la differenza, anche se non così evidente, appare nel momento in cui si fanno i conti con le conseguenze umane del proprio agire. La seconda indicazione, secondo me la più rilevante, è quella che, ancora una volta, ci porta a riflettere sull’assoluta incontrollabilità della rete e soprattutto dei social: l’esperimento di Stanford fu bloccato nel momento in cui questo cominciava a diventare pericoloso, al contrario, il «suicide game» inventato da Philipp Budeikin, non può essere bloccato, neanche con l’arresto del suo ideatore, e continua a mietere vittime.

A Ravenna una studentessa di 14 anni è stata salvata dalla polizia postale prima che accedesse all’ultima e distruttiva fase della prova; tre giorni fa, a Moncalieri, in provincia di Torino, i carabinieri, su segnalazione della scuola, hanno sentito un’altra ragazza che mostrava segni di ferite auto-inferte: eppure, il nostro folle studente russo era già in prigione da una quindicina di giorni. Una volta disposta in rete, Blue Whale diventa una trappola mortale che vive di vita propria, alimentata dalla sua stessa fama e dalla facilità con cui chiunque può sostituirsi al primo ideatore nel ruolo di «curatore» di guida verso l’autodistruzione: tagliata la testa dell’Idra ne rinascono altre due. Come già dicevo, nel mondo impalpabile (ma guai a ridurlo a semplice virtualità) dei social, perché una cosa esista basta nominarla: questo stesso articolo rende «esistente» Blue Whale. Ma nel guardare attoniti alle schiere di ragazzi che cadono nella trappola e accettano di seguire un «curatore» che li sottopone a prove sempre più crudeli, noi non dobbiamo dimenticare che i riti d’iniziazione ci sono sempre stati, che le «prove di coraggio» per entrare in una banda di ragazzini (nel mio quartiere il rito si chiamava «Benedizione santa») sono sempre esistite e sono almeno vent’anni che le serie poliziesche americane ci parlano di violenze perpetrate ai danni di chi aspira a entrare in questa o quella confraternita universitaria. E non dobbiamo neppure dimenticare che il suicidio è un luogo comune dell’immaginario giovanile: non continuiamo forse a studiare I dolori del giovane Werther e Le ultime lettere di Jacopo Ortis? Quale aggiunta di orrore ci porta dunque «Blue whale»?

La solita, la viralità. Quella viralità del web su cui i pubblicitari fanno leva per vendere di tutto, quella viralità che premia con milioni di visualizzazioni l’instancabile imbecillità di chi manda in rete video con scherzi telefonici o sonore flatulenze, quella viralità è la stessa che può promuovere comportamenti autolesionistici e indurre al suicidio su una scala mai vista. Episodio dopo episodio, trappola dopo trappola, inganno dopo inganno, dalle fake news per influenzare le elezioni fino all’accalappiamento di aspiranti suicidi, i social mostrano tutta la loro pericolosità, mostrano la loro natura mostruosa di entità incontrollabile: sotto l’apparente bonarietà di un luogo dove condividere le prodezze dei propri gattini o dove scambiare opinioni, si cela la realtà di un bosco ben più terrificante di quello delle fiabe. Un futuro senza social sarebbe utopico o distopico? Felice o infelice? Mi scopro più apocalittico che integrato e voto, inutilmente, per un futuro senza social. Nella strage di Utoya, Anders Breivik, con un fucile automatico uccise 69 adolescenti: Philipp Budeikin, con la rete, ne ha già ammazzati 160. Eppure, anche in questa nuova tragedia, forse una buona notizia c’è: se, nei giorni scorsi, sono state salvate in extremis alcune ragazze è perché i compagni di scuola e gli insegnanti le hanno guardate (cosa che forse non avevano fatto i genitori), hanno sussultato per quelle ferite così evidenti e sono intervenuti allertando le forze dell’ordine. La follia della rete, della comunità globale, è stata sconfitta dall’attenzione della piccola comunità, dal gesto, tutto umano, del prendersi cura. Questa è dunque la via che ci viene indicata: le minacce del mondo elettronico si combattono con la vicinanza fisica, con la prossimità, con il calore di un contatto che si fa sguardo e tocco e che non si esaurisce nella superficiale distribuzione di Like e faccine.
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