La luce segreta del dolore

di ​Wanda Marasco
Domenica 28 Agosto 2016, 09:31 - Ultimo agg. 09:54
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«Basta non ho potuto salvarli». Colui che tra i banchi, nella navata della chiesa, ha pensato questa frase sincopata, possiede una voce interiore simile a quella di tutti gli altri. Il vescovo parla, la chiesa è piena di gente, storie, memorie, occhi. Alcuni guardano verso l'altare, i più rasoterra. La navata ricopre e sembra proteggere questo pensiero di resa. Ma forse è una forma di riposo che appartiene a tutti. La stanchezza dei volti. Non è riconducibile solo alla fatica e all'insonnia di questi giorni. È una stasi del dolore. Succede. Nell'angoscia della realtà e nel sentimento della perdita una sostanza interiore diventa candela spettrale. Questa luce insufficiente trema. Dovrebbe guidare alla rassegnazione o a un punto di svolta. Più spesso ne trova uno di annichilazione. Sembra l'ultima cadenza del nostro sentire, sorta di culla vuota in fondo all'essere. Durante l'omelia il vescovo ricorda l'urlo di Giobbe. Lo sdoppia in due interrogativi fiammanti: «Ora che si fa? Perché Dio ha permesso che accadesse?». Vuole tradurre la domanda e il silenzio dell'uomo di fronte alla perdita. Paragona il terremoto alla violenza dell'aratro che quando squarcia compie un'azione rigenerante per la terra. Come a dire che anche una lacerazione può contenere il germe di un bene futuro. E continua: «Il terremoto è polvere». Non ha bisogno di chiarire la valenza metaforica. La polvere che ha ricoperto i corpi richiama il «pulvis es et in pulverem reverteris». Per l'uomo di fede non si tratta soltanto di una trasformazione chimica. Per lui ci sarà l'armonia finale, il premio della resurrezione. Ma qui, prima di qualunque idea religiosa e filosofica, c'è il dolore in atto. Non è ancora un percorso di conoscenza. È una fitta. Occorre del tempo per farla diventare meditazione. Metafisica, agnosticismo, materialismo, scetticismo, se pure attraversassero la mente dell'uomo che ha perduto molto o tutto, non servirebbero a ridurre o a giustificare il dolore. Si affaccia subito l'equazione tra il male e il dolore. Nella storia umana sgorgano l'uno dall'altro. A volte si chiamano sterminio, strage, povertà, calamità naturale. Se si ha bisogno di personificare la lotta tra il male e il bene ci si dimentica dell'uomo, si mette su il teatrino faustiano della scommessa fatale. Poi le personificazioni possono più ragionevolmente diventare sistema dialettico, categoria, interpretazione letteraria, diversa impostazione della vita. Nel dolore in atto il male è la perdita. Degli affetti, della casa, delle strade su cui fino a ieri si sono posati i nostri piedi.
«Sara, Giorgia, Giulia, Simone, Santa…». L’elenco è lungo. Si spera che non sarà troppo lungo il tempo necessario a rifondare il bene contro la devastazione: case da ricostruire nel rispetto delle regole antisismiche, assistenza psicologica, progetti di lavoro e aiuti economici. Taumaturgia del tempo sul dolore. I fatti, insomma. Per non negare a nessuno il diritto alla dignità e alla rifondazione della vita. Quindi il gesto etico e concreto in ogni azione politica. Il dolore è in atto. Ci si ferma sulla sua soglia e lo si ascolta perché contiene in un modo più semplice e diretto il rifiuto dostoevskijano, a credere che l’armonia finale possa realizzarsi persino attraverso il male fatto ai bambini. Perché nel dolore si ripensa al terrore e alla fragilità dell’essere umano. Allora sarà terribile e fondante ripetere in sé l’urlo di Giobbe, i versi de La ginestra, l’ironia del Dialogo della Natura e di un islandese, il sogno e le maledizioni di Faust alla vita e al suo carico di illusioni, passare attraverso lo stadio amletico in cui ci si sente orfani e invendicati, ripercorrere la rabbia psichica e antropologica di Thomas Bernhard, ripossedere il senso beckettiano della desolazione umana. Ma il dolore è in atto, e la perdita non si spiega né si esaurisce con il soccorso delle pagine più amate.
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