Ponte sullo Stretto, le estorsioni
della 'ndrangheta sui lavori:
26 arresti a Reggio Calabria

Il progetto del Ponte sullo Stretto
Il progetto del Ponte sullo Stretto
di Serafina Morelli
Martedì 15 Novembre 2016, 09:36 - Ultimo agg. 21:25
4 Minuti di Lettura

«Non lasciare scampo a nessuno, devono pagare tutti». È riassunta in questa intercettazione l’asfissiante pressione estorsiva che le 'ndrine esercitavano a Reggio Calabria e Villa San Giovanni. E quasi nessuno era disposto a denunciare le “pressioni” dei clan che agivano indisturbati. Il controllo delle cosche Zito-Bertuca in accordo alla potente famiglia dei Condello era così penetrante che, oltre a condizionare la vita economica del territorio villese, dove per ogni avvio di iniziative imprenditoriali bisognava ricevere il placet dei vari clan, erano in grado di risalire agli autori di furti in abitazione e di veicoli, dei danneggiamenti e di attivarsi per la restituzione dei beni ai legittimi proprietari anche dietro il pagamento di una somma di denaro. Un controllo esercitato in modo capillare e sgominata con l’operazione “Sansone”, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria – ed eseguita dai Carabinieri del Ros e del comando provinciale - che ha emesso un provvedimento di fermo nei confronti di 26 persone accusate di associazione mafiosa, estorsione, minaccia e danneggiamento seguito da incendio, detenzione illegale di armi ed altri reati.

L’inchiesta è partita dalle indagini sulle ricerche di Domenico Condello, detto “U Pacciu”, inserito nell’elenco dei latitanti più pericolosi stilato dal Ministero dell’Interno, e ha permesso di ricostruire la rete di fiancheggiatori del capomafia arrestato nel 2012, dopo essere sfuggito alla giustizia per 20 anni. Da qui sono partiti gli inquirenti anche per capire cosa ha rappresentato la famiglia Condello dal 2012 in poi e quanto forte è il controllo della cosca sul territorio di Villa San Giovanni, compresi gli interessi e i legami dal 1991, anno di conclusione della seconda guerra di ‘ndrangheta.
 


Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, ha ricordato che proprio nel centro limitrofo alla città dello Stretto «venne ucciso il giudice Antonio Scopelliti nell’agosto del 91, un omicidio che certamente non viene dimenticato dalla Procura e chi ha commesso questo omicidio prima o poi verrà identificato. Speriamo prima, che poi…». Sul territorio della provincia di Reggio Calabria infatti «continuano a manifestarsi gli effetti nefasti di quella pax mafiosa probabilmente sottoscritta con l'estremo sacrificio del sostituto procuratore generale della Cassazione, Antonino Scopelliti. Fatti così gravi non restano impuniti».

Con questa operazione «siamo riusciti a dare una scossa a questo territorio – ha affermato nel corso della conferenza stampa il comandante del Ros, Giuseppe Governale -. Stiamo svolgendo un’azione paragonabile a quella di un martello pneumatico nei confronti di una struttura di cemento armato che stentiamo a distruggere, ma il martello non si ferma e noi siamo determinati ad andare fino in fondo».

Nel complesso le attività di indagine - che ha abbracciato gli anni che vanno dal 2010 al 2014 e ha impegnato oltre 300 carabinieri - hanno permesso di documentare venti episodi estorsivi, consistenti nella pretesa di ingenti somme di denaro, a danno di numerose imprese che operano nei settori della raccolta dei rifiuti e delle costruzioni, impegnate nello svolgimento di servizi ed opere sia private che di interesse pubblico, i cui proventi, sono stati suddivisi tra le cosche. In particolare nei rapporti tra le cosche di ‘ndrangheta Zito-Bertuca e quelle Condello-Buda-Imerti per la divisione dei proventi estortivi, non sono mancati momenti di criticità derivanti dalla duplicazione delle richieste estorsive tali da determinare, in alcuni casi, incontri diretti tra i referenti dei due schieramenti: “Gli devi dire che prima di andare a Cannitello devono ”bussare” però”.
Il controllo sul territorio era capillare e nessuna impresa si poteva sottrarre alla tassa imposta dai clan per accedere nella loro zona. Spesso gli episodi estorsivi non avevano neanche bisogno di azioni eclatanti, «il nome era una garanzia» e gli imprenditori intimiditi, che svolgono lavori di migliaia di euro, erano i primi a dover pagare. Ma solo «in pochissimi casi c’è stata una denuncia – ha spiegato il procuratore De Raho - e in quel caso l’estorsione si è fermata e la vittima non è stata più “avvicinata”. Ma lì dove la denuncia non c’è stata l’estorsione è andata avanti. La difficoltà maggiore nasce proprio perché denunce da parte dei cittadini non ce ne sono».

© RIPRODUZIONE RISERVATA