Mastella, Scafarto e quelle indagini da seppellire con una risata

di Luigi Covatta
Domenica 17 Settembre 2017, 09:34
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A dieci anni dal «Vaffa day» ci si interroga su come sia stata possibile una così devastante esondazione di quel sentimento antipolitico che, pur essendo nato ai tempi di Mani pulite, negli anni precedenti era stato bene o male canalizzato dalla «discesa in campo» di Berlusconi e dalla esibizione di qualche «Papa straniero» da parte del centrosinistra. Forse la tardiva assoluzione di Clemente Mastella e di Sandra Lonardo ci aiuta a capire. 
I giornali hanno già segnalato la deplorevole lunghezza dell’iter giudiziario, e le conseguenze politiche delle iniziative della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Non hanno messo sufficientemente in luce, invece, la natura del capo di imputazione: e cioè che per l’ineffabile Pm Mariano Maffei (quello di «e mo’ se cade il governo fosse colpa mia?») una normale trattativa politica (magari più dura di altre) configurava la fattispecie penale della concussione. Da qui a criminalizzare la politica in quanto tale il passo è brevissimo.

È un passo, per la verità, che la Procura di Napoli aveva già fatto: per esempio quando aveva istruito un processo (poi finito in prescrizione) contro Berlusconi per avere «comprato» il voto del senatore De Gregorio. Allora si ignorò che De Gregorio aveva abbandonato la maggioranza fin dall’inizio della legislatura, quando si era fatto eleggere alla presidenza della Commissione Difesa dal centrodestra: e comunque si pretese di sindacare il voto di un parlamentare, come la Costituzione vieta espressamente di fare. Ma il caso di Mastella è diverso: tant’è vero che – con invidiabile coerenza logica – Maffei imputò di «associazione a delinquere» anche l’intero gruppo dirigente dell’Udeur campana.

Per carità: quella della lottizzazione è una pratica poco virtuosa, ed è del tutto lecito (ed auspicabile) contrastarla nelle sedi proprie (nelle assemblee elettive, nel dibattito pubblico, quando ci vuole anche in piazza). Ma alla magistratura spetta il controllo della legalità, non quello della virtù di chi esercita i pubblici poteri. A suo tempo fu Alessandro Pizzorno (a ridosso di Mani pulite) a segnalare la pericolosità di questa nuova tendenza della giurisdizione, destinata inevitabilmente a provocare l’esondazione del potere giudiziario: non si può dire però che in questi anni si sia meditato a sufficienza sul suo monito.

Questo ovviamente non significa che la responsabilità dei «Vaffa day» vada attribuita principalmente alla magistratura. Lo stesso Pizzorno osservava che la pretesa di sindacare la virtù dei politici, e non la legalità dei loro comportamenti, poggiava sui mutamenti che si sono verificati nell’universo mediatico: tali da indurre anche i giudici a perseguire un «pubblico riconoscimento», prima ancora che una sanzione processuale di azioni illecite. Ed allora c’è da chiedersi quanto abbiano contribuito i media al successo di Grillo e dell’antipolitica. 

Non c’era bisogno di essere Woodward e Bernstein – i due reporter del Watergate – per denunciare l’insostenibilità delle elucubrazioni di Maffei. Così come ora non ce ne sarebbe stato bisogno per seppellire con una risata le indagini del capitano Scafarto nei cassonetti della spazzatura adiacenti gli uffici di Alfredo Romeo.
Perché allora non lo si è fatto? Per eccessiva condiscendenza verso le Procure? Anche. Ma soprattutto per l’abitudine ad osservare il confronto politico dal buco della serratura: per cui, ad esempio, la colpa della caduta del secondo governo Prodi è ascrivibile alternativamente a Mastella o a De Gregorio, ma non al logoramento della coalizione di maggioranza ed all’annuncio di Veltroni di non volerla rinnovare nella legislatura successiva. «It’s politics, stupid», avrebbe detto Clinton: ma in Italia c’è ancora chi preferisce passare per stupido pur di non riconoscere alla politica il suo spazio autonomo e la logica delle sue dinamiche interne.
 
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