Morto Riina, il risveglio di Corleone
I giovani: «I nostri eroi sono altri»

Morto Riina, il risveglio di Corleone I giovani: «I nostri eroi sono altri»
di Francesco Lo Dico
Sabato 18 Novembre 2017, 08:27 - Ultimo agg. 14:07
6 Minuti di Lettura

La città è livida e ammaccata, come reduce da una notte insonne. Stretti tra le due rocche gemelle, i tetti di Corleone sono sferzati dalla pioggia. Via Bentivegna è un budello stretto popolato di fantasmi. Persiane chiuse, bocche cucite, pochi giovani che si infilano nella corriera per Godrano con aria intimidita. All'orizzonte nuvoloni neri fanno a pugni con gli squarci di sole di un mattino di novembre contrastante. La perfetta metafora di un paesino che si sveglia diviso dopo la morte del famigerato concittadino. «Iddu», lo chiamano tutti. Lui e basta. Perché qui, il mammasantissima, nessuno lo nomina invano neppure da morto. Ma per il resto, su Totò Riina, la città marcia divisa. Da una parte i vecchi seduti nei bar con la coppola in testa e il sigaro in bocca. Sono quelli che dicono che il Capo dei Capi era una «brava persona ca fici tantu bene». Dall'altra i giovani, quelli nati dopo le stragi del 92, che della faccia di Riina non conoscono neppure i connotati. Quelli che i botti della mafia a Capaci e via D'Amelio, li hanno sentiti in dvd nelle proiezioni scolastiche.
 


Due città diverse, che sgomitano e sono costrette a convivere in una cittadina troppo stretta per accoglierle entrambe. Nel bar Keystone, a due passi da piazza Falcone e Borsellino, gli occhi del titolare sono incollati sulla diretta del Tg5, mentre sua moglie serve al bancone. «Hanno intervistato a Calogero, u viristi? Mischino, gli ammazzarono suo padre proprio qua vicino». Tempi feroci quelli. Tempi in cui i picciotti di Totò u curtu, si erano stancati di macellare vacche rubate nei campi, e si erano messi a scannare uomini con la stessa ferocia. Gli anziani però, non hanno nulla da rinfacciargli. Perché in quei fiumi di sangue, scorrevano pure fiumi di soldi. «Fino a quando c'era Iddu, tutti lavoravamo, dal primo all'ultimo. Quando lo presero, finirono tutte cose», dice nostalgico un uomo sui settant'anni che appare per metà dietro la mezza porta. Intanto al bar di via Bentivegna è già montato il dibattito. I vescovi hanno fatto sapere che non ci sarà nessun funerale pubblico, ma in tanti mugugnano. «Nostro Signore ha detto che tutti devono essere accolti, chi siamo noi per dire che un uomo non ha il diritto ad andarsene in pace?», ragiona la cassiera. «Non si è pentito, non ha diritto al perdono chi non si pente, e ora se la vede con Dio per quello che ha fatto», replica una donna sui 40anni, bionda e dritta come un fuso, mentre scuote la sua tazzina. Pezzi di città contro. Pezzi di una città dalle cento chiese dove ancora la religione è forte, e avvertita come forza salvifica. «Noi ci abbiamo provato a farlo pentire», dice la cassiera. «Era tutto pronto. Iddu aveva accettato poco prima di morire di ascoltare fra Felice. Poteva confessare i suoi peccati, ma purtroppo non abbiamo fatto in tempo». Forse solo il sogno di una redenzione impossibile. Perché in ventiquattro anni di galera, Riina non ha mai detto una parola. Mai un sussurro, mai un fiato. Dei pentiti Riina non aveva nessuna stima. Li ha ammazzati tutti. E quando non ci è riuscito, si è accanito sui loro familiari. Come è successo a undici parenti di Bagarella, scannati uno per uno senza minima pietà per gli innocenti. Torvo e livido fino alla fine, Totò continuava a sognare omicidi, a tessere attentati. Ma in paese, c'è chi riconosce al boss sanguinario una fosca coerenza. «Non ha parlato fino all'ultimo giorno. Iddu era il capo ed è stato coerente. Per me uno così è da ammirare», borbotta un uomo vicino ai cinquant'anni che ha i capelli grigi raccolti in una lunga coda.

 

«Il discorso è semplice confessa un dipendente comunale la legalità è bella, ma con la legalità non si mangia e la gente va dove c'è da manciare». La rabbia, tra i trentenni e i quarantenni, qui è diffusa è palpabile. «A me non mi interessa niente e non mi cambia niente. È un giorno come un altro, sono disoccupato». Negli anni dell'asse tra Riina e Ciancimino, a Corleone piovevano soldi. Appalti e commesse a catafutti, dicono gli anziani del posto. Ma dopo l'arresto di Riina, i rubinetti si sono chiusi. Senza il capo, la mafia ha preso a sbandare, i clan si sono divisi. Ma non hanno smesso di arare il territorio, per conservare gli antichi privilegi.

Ad agosto del 2016, il comune fu sciolto per mafia poco dopo di un dipendente comunale, Antonio Di Marco, indicato dagli inquirenti come il nuovo capo mandamento. Ma nel fascicolo della dda finì anche il fratello del primo cittadino, Giovanni Savona. Nella città che glorifica Francesco Bentivegna, leggendario eroe risorgimentale che capitanò l'insurrezione antiborbonica dopo i moti del 1848, il confine tra Stato e anti-Stato è da sempre evanescente. Al secondo piano, una delle tre commissarie che regge il Comune ormai da 15 mesi, ha l'aria molto stanca. «Abbiamo ereditato una quantità di problemi enorme, io e le colleghe stiamo tutto il giorno con il naso sui fascicoli per cercare di riportare un po' d'ordine. Siamo al giro di boa, stiamo facendo il possibile». La commissaria nega decisa di aver finora ricevuto intimidazioni o messaggi obliqui. «Ma posso dire che la città è divisa. Per alcuni che sono contenti della nostra venuta, ce ne sono tanti che non sembrano per niente contenti. Quelli che prima mangiavano, li abbiamo messi a dieta». In alto, ai piedi della rocca, via Scorsone resta al riparo degli occhi dei cronisti. Qui, in una modesta palazzina a due piani dove penzola un vecchio festone, è tornata a vivere Ninetta Bagarella dopo vent'anni. La sua fuga d'amore con Riina arrivò improvvisa agli inizi degli anni 70. Così che anche lei fu dichiarata latitante. «Era la mia insegnante di educazione fisica», racconta divertita la signora Maria. «E poi un giorno non la vidi più. Il preside ci disse che era partita».

Ce ne sono storie da raccontare, in questo Paese che marcia diviso. La pioggia di colpo svanisce, un gruppo di ragazzi ci viene incontro. «Raccontatela tutta Corleone, perché a Corleone ci siamo anche noi». Valeria e i suoi amici hanno tutti tra i 16 e i 18 anni. Lavorano al Cidma, il Museo antimafia di Corleone. E non hanno paura. «La sentiamo la puzza della mafia», raccontano i ragazzi, «ma i nostri eroi sono Falcone e Borsellino. Quando i turisti stranieri ci vengono a trovare, si aspettano di trovare al museo la Corleone del Padrino. E così molti se ne vanno delusi».
«Noi non vogliamo giudicare i nostri cittadini che parlano bene di Riina. Sono anziani e non hanno potuto studiare», dicono i ragazzi riuniti davanti allo spiazzo della Villa comunale. «Ma allo stesso tempo, devono capire noi: noi con la mafia non vogliamo averci niente a che fare. Chi studia non ha alibi, perché sa distinguere il bene dal male». «La mafia c'è ancora e non finisce certo con Riina aggiunge Fabio ma il tempo è dalla nostra parte e siamo fiduciosi. Noi questa la città la cambieremo. Perché noi da Corleone non ce ne andiamo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA