Nasser, imam nel Casertano:
predicatore anti-odio, con amicizie pericolose

Nasser, imam nel Casertano: predicatore anti-odio, con amicizie pericolose
di Mary Liguori
Sabato 9 Settembre 2017, 09:24 - Ultimo agg. 10:48
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La moschea di San Marcellino non ha un minareto, ma l'imam Nasser Hidouri, dall'alto dei suoi due metri, ricorda molto la torre dalla quale giunge il cantinelante richiamo del muezzin. Un personaggio di statura imponente, Nasser, e non solo fisicamente. Il suo carisma lo rende una persona molto diversa dall'insegnante delle scuole elementari che a metà degli anni 90 lasciò la Tunisia per fuggire da un paese sotto dittatura.

Da quel momento, l'ex professore ne ha fatta di strada. Una laurea all'Orientale di Napoli, in studi islamici, un matrimonio con una giovane marocchina conosciuta a Brescia. Tre figli nati in Italia. E la moschea. La sua vera creatura. Un luogo di culto che ieri, per la preghiera del venerdì, ha accolto la metà dei fedeli che di solito calamita ogni settimana. In trecento si sono prostrati verso la Mecca. Generalmente ne arrivano il doppio. Li ha fermati la pioggia che si è abbattuta sul Casertano poco prima dell'ora di pranzo. Con i trecento musulmani, ieri a San Marcellino c'erano una decina di cristiani, i ragazzi della Caritas, perché la moschea di San Marcellino è da sempre luogo di scambio culturale e religioso. Nasser oggi è un cittadino tunisino con la carta di soggiorno permanente in Italia. Torna nel suo Paese tre volte l'anno dove ha allestito una coltivazione di rose di Damasco.

Nel 2009 aveva chiesto la cittadinanza, ma l'inchiesta che lo coinvolse nel Veneto, dove fu indagato nell'ambito di indagini sul terrorismo di natura islamica, bloccò la procedura e l'istanza fu respinta. «Da quel momento - spiega Nasser - non l'ho più presentata».

E, per dirla tutta, dopo il 2009, almeno in un'altra occasione il nome dell'imam tunisino è finito collegato a personaggi ritenuti vicini all'Islam radicale. Il 5 luglio del 2016 fu arrestato dai carabinieri del Ros, e ora è sotto processo, il custode della moschea di San Marcellino, Mohammed Khemiri, un tunisino ritenuto attivista dell'Isis e gestore di una centrale per la produzione dei documenti falsi destinati a persone provenienti dall'Africa del nord. La centrale era allestita proprio sopra il luogo di culto musulmano del Casertano.

Nasser negò di essersi mai accorto delle attività svolte da Khemiri benché le sue esternazioni «contro gli adoratori della Croce» fossero pubbliche su Facebook, dove peraltro lo stesso imam è molto attivo. Frasi che incitavano alla «guerra santa» quelle pubblicate sul profilo del custode della moschea, insieme a un vero e proprio proclama di adesione alla causa del Daesh. «Sarò isissiano fino alla morte», scriveva. Neanche questo ha però screditato Nasser. Un «minareto», dicevamo, un simbolo di dialogo costante e di cooperazione tra il mondo islamico e quello cristiano, ma anche un «parafulmine».

«So di essere responsabile di ciò che accade nella moschea, per questo collaboro costantemente con le forze dell'ordine e i Servizi, ma conosco anche i rischi che il mio ruolo comporta; il male è passato anche di qua e so che potrei un giorno risponderne in prima persona», spiega l'imam. «Non per questo - aggiunge - mi tirerò indietro: il mio ruolo mi impone di continuare il compito di integrazione tra le due comunità, il rischio è insito, tuttavia prendendo esempio da Don Peppe Diana, che ha dato la vita per i principi di libertà e legalità, non mi tirerò mai indietro». E il suo seguito, fatto da musulmani, ma anche da cristiani che credono nel processo di integrazione tra le due comunità, cresce costantemente.

La settimana scorsa la moschea ha accolto più di mille fedeli. Eppure a San Marcellino, dall'arresto di Khemiri, qualcosa è cambiato. «Lo si vede poco in giro, Nasser, invece prima era spesso in piazza, andava al Comune o in chiesa a parlare con il vecchio parroco», dicono alcuni residenti. Non così per l'imam, che invece parla di una ritrovata solidarietà da parte degli italiani, anche e soprattutto dopo l'attentato che il centro islamico subì nel febbraio scorso. «Furono dei ragazzini, li abbiamo perdonati, ma sappiamo anche che il movente fu di tipo politico: i mandanti, al contrario degli esecutori, non hanno mai chiesto scusa», dice Nasser che più volte, in questi mesi, ha parlato di un clima d'odio generato dopo la vicenda del custode. Ieri la moschea si presentava molto diversa da come la si è vista nei mesi scorsi.

Lavori in corso per il rifacimento dei servizi igienici. Opere affidate a due giovani fedeli. Entrambi hanno un vistoso livido sulla fronte. «Pregano per ore, con la fronte sul pavimento», spiega l'imam. Quel segno, che in arabo si chiama «zebiba», callo frontale, è il bernoccolo della preghiera causato dall'atto di battere la fronte sul tappeto durante le orazioni. Insieme alle vesti che non devono sfiorare terra e alla barba incolta sono i simboli che si manifestano nei fedeli molto osservanti. E nei musulmani radicali. «Anch'io in Tunisia ho ricevuto un indottrinamento radicale - spiega l'imam - ma una volta in Italia mi sono imposto di rileggere il Corano e in nessuno dei versetti compaiono i messaggi di odio che vengono trasmessi dall'Isis, per questa ragione il nostro ruolo all'arrivo di questi giovani è mostrare loro che il dialogo con l'altro è possibile, che il confronto è necessario e la convivenza pacifica un obiettivo di tutti».

I messaggi di pace e l'archiviazione delle accuse formulate in Veneto sembrano eclissare quei sospetti che si erano annidati su Nasser. Ma recenti indagini dell'intelligence tengono aperta, ancora, la porta ai dubbi.

 
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