Perché regolare la Rete è un dovere ineludibile

di Salvatore Sica
Martedì 12 Settembre 2017, 08:38
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Non c'è più spazio per incertezze ed esitazioni: la Rete, straordinario strumento di crescita sociale e civile, è contemporaneamente terribile mezzo di distruzione delle vite individuali e collettive. Lo dimostrano, se ve ne fosse bisogno, la recente vicenda dell'ennesimo video «hot» realizzato dal fidanzato di una minorenne ed immesso sul web, la richiesta di archiviazione per il suicidio di Tiziana Cantone, e la brutta storia di «gossip» a mezzo Instagram, di cui si è dato conto nei giorni scorsi. Ma la quotidianità è fatta di «abuso» della Rete, di esistenze spezzate dalla violazione della privacy, di linguaggio d'odio e di molteplici reati consumati telematicamente.

Allora è il momento - non differibile - di fare il punto della situazione e di individuare alcune linee guida di intervento, o se si preferisce, una filosofia del rimedio, che deve precedere le soluzioni tecniche e di dettaglio. Primo aspetto: nessuno vuole impedire lo sviluppo di Internet e delle sue immense potenzialità, ma occorre rimuovere definitivamente l'idea che sia un'agorà di sola liberta e manifestazione del pensiero. A meno che non si arrivi a sostenere che è tale anche la pubblicazione del sesso orale strappato ad una quindicenne o il dileggio sui social di un compagno di classe: neppure le ideologie più libertarie possono spingersi a tanto e se una società rinunzia alla proposta di valori «minimi» di convivenza è difficile riconoscerla come civile. 

Dunque, prima la società poi il diritto non possono abdicare alle opzioni valoriali, magari per scelta «filosofica» o, peggio ancora, per ideologia «mercatista».

Secondo punto: il dilemma prevenzione-repressione: è falso! Ovvio che occorra prevenire, ma come? Campagne educative nelle scuole: sì, ma i soggetti educatori sono sufficientemente liberi dall'ipoteca della «comunicazione su tutto»? Più chiaramente, se non ci rendiamo conto, almeno in un lucido intervallo, che versiamo in uno stato di ebbrezza collettiva, nessuna iniziativa sarà credibile ed efficace. Assistiamo a professori, presidi, perfino catechisti delle parrocchie e così via, «schiavi« della necessità di comunicazione social ad ogni costo: dubito che possano avere la necessaria lucidità per contrastare l'idea - che poi è il cancro maggiore - secondo cui non basta essere, ma occorre apparire sul web!

L'educazione, come strumento preventivo impone una palingenesi, indispensabile, ma non di breve periodo e soprattutto richiede che ci si renda conto della «bruttezza» che lo specchio dei social riesce in molti casi a riflettere. Sarebbe tempo che se rendesse conto anche, tra gli altri, il Papa: non si possono fare campagne di giustizia sociale se non si arriva al cuore del malessere morale dell'Information Society, risultato preciso di un disegno di egemonia economica del mondo a controllo oligopolistico.

Terzo punto: il ruolo delle regole. Intanto è già importante accettare che il web non è «zona franca». Sembra banale, ma ci è voluto un decennio e parecchi episodi di «violenza a mezzo Rete» perché si facesse strada la tesi che la specificità del medium non equivale al superamento delle tradizionali figure di diffamazione, estorsione, violenza morale e così via, che ci consegnano i codici della tradizione. Semmai la Rete ha introdotto nuove e più raffinate ipotesi di illeciti: il furto di identità, lo spamming, lo stalking telematico, soltanto per citarne alcune. Mail diritto è vecchio ed i suoi strumenti inadeguati: procure, polizia postale, giudici civili annaspano, dispongono di strutture tecniche superate, atteso che non intendo pensare che certi «proscioglimenti» siano il frutto di sottovalutazione dei fenomeni. Sarebbe inaccettabile sul piano tecnico ed etico. Eppure il sospetto viene quando si sentono affermazioni sul fatto che le vittime «se la sono cercata», che sul piano giuridico possono prendere la veste del «consenso dell'avente diritto»!

Quarto punto: attiene proprio al consenso; è il pilastro su cui sono state costruite la cultura e la disciplina della Rete. Del resto, secondo il modello americano dell'Informed consent, molte aree della società - si pensi al trattamento medico - sono governate dall'endiadi «informazione-consenso». Ma in Internet il modello regge? Credo che sia tempo di dire con forza che nessuno legge le condizioni del servizio dei social o le politiche della privacy di grandi operatori della Rete. Insomma, il consenso è una foglia di fico se non una farsa!

Quinto punto: gli attori del processo. Fin qui si ci si è occupato dei contenuti, delle vittime, degli autori degli illeciti, mentre i gestori del servizio sono stati nascosti dalla comoda posizione di semplici «autostrade della comunicazione»! Puoi mai rispondere la società autostradale del danno che cagiona l'automobilista ubriaco che investe altri veicoli? Probabilmente no, ma se essa viene avvisata della presenza di un pazzo che circola contromano o della chiazza di benzina sul manto stradale e non interviene, si rende corresponsabile dei danni e ne assume, almeno in parte, il risarcimento. Fuor di metafora, i gestori non possono più sottrarsi alle loro responsabilità, né obiettare che non sono in condizione di intervenire prontamente: in realtà possono tutto! Anche, ad esempio, conoscere i nostri gusti e farci arrivare pubblicità mirata! Tale ultimo aspetto richiede un recupero della politica. Considero la proposta di Web Tax recentemente avanzata da quattro paesi europei il primo passo per «stanare» gli Over the Top della Rete: importante, ma non sufficiente.

Le mani vanno messe ancor più in profondità nelle loro tasche: è l'unico linguaggio che conoscono e l'unica via per averli compartecipi della prevenzione e della repressione dell'uso distorto del Web.
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