Ricostruzione: cinque regole per non sbagliare

Ricostruzione: cinque regole per non sbagliare
di Bruno Discepolo
Martedì 30 Agosto 2016, 09:25 - Ultimo agg. 16:49
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È possibile che il terremoto del 24 agosto, di certo non il più violento o esteso o con il maggior numero di vittime che abbia conosciuto il nostro Paese, produca l’effetto di una presa di coscienza generalizzata sull’insostenibilità di una condizione quale è quella che caratterizza l’Italia nei confronti del rischio sismico – ma più in generale nella sua fragilità e vulnerabilità territoriale – con l’assunzione di decisioni politiche e l’attivazione di interventi non più procrastinabili. Ecco alcuni suggerimenti sulle cose da fare e su quelle da evitare. 

Uno. Oggi sappiamo con precisione cosa è accaduto e cosa ci dobbiamo aspettare almeno per quanto riguarda i terremoti. La serie storica, riferita a quelli più gravi, cioè superiori ai 5.5 gradi della scala Richter, segnala 148 eventi in 700 anni ovvero 30 negli ultimi 150: comunque li si conti, si manifesta un sisma al più ogni 5 anni. Solo con gli ultimi 7 terremoti, dal Belice all’Emilia in poco meno di mezzo secolo, si sono contati oltre 4000 morti e circa 120 miliardi di costi per le ricostruzioni, qualcosa come 3000 milioni all’anno.

Due. La cifra di tre miliardi all’anno, da spostare dal capitolo delle riparazioni dei danni a quello della prevenzione, è una buona base di partenza per un grande Piano di messa in sicurezza del patrimonio edilizio e dei centri abitati che si potrebbe abbinare ad uno di Rigenerazione urbana. Anche in questo caso, con una sapiente regia, sarebbe possibile ottenere un importante moltiplicatore, sia a livello di opere e capitoli riconducibili alla stessa strategia (infrastrutture, servizi a rete, beni culturali, ecc.) che per quanto riguarda le fonti di finanziamento.  In particolare, adottando soluzioni improntate alla promozione di buone pratiche, come nel caso del patrimonio edilizio privato, con misure di incentivazioni e defiscalizzazione, si otterrebbe una partecipazione di capitali privati in misura anche significativa. Quando a Napoli si è sperimentato il Progetto Sirena la quota di finanziamento pubblico, per interventi sulle parti condominiali di un edificio, era pari ad un terzo del totale e studi condotti in fase di monitoraggio del programma, accertarono un ritorno per la mano pubblica di circa il 40% per cento di quanto finanziato.
Inoltre, si stanno sperimentando in Italia anche modelli avanzati di partenariato pubblico-privato in tema di realizzazione di attrezzature pubbliche, dalle scuole agli ospedali, attraverso strumenti di finanza di progetto, permute, fondi immobiliari, ecc.

Tre. Un’ulteriore quota di risorse importanti (oltre che di assunzione diretta del problema, anche dal punto di vista politico-istituzionale) potrà venire dall’Europa, oltre le formule tipiche di fondi finalizzati all’emergenza da disastri ed eventi eccezionali. Già oggi esistono misure volte alla risoluzione di problematiche legate al rischio idro-geologico ovvero al raggiungimento di livelli prestazionali ottimali in campo energetico (la cosiddetta strategia Europa 2020).
È arrivato il momento, anche per impulso forte dell’Italia, che Bruxelles si renda conto che uno dei Programmi strategici europei deve essere finalizzato al consolidamento e messa in sicurezza del patrimonio edilizio delle aree a maggior rischio, volto a salvaguardare vite umane e, nello stesso tempo, ad evitare di sprecare risorse economiche degli Stati membri per riparare i danni anziché prevenirli.

Quattro. Di tutta questa scia drammatica di eventi e lutti, resta la consolazione di aver messo in piedi una delle più efficienti macchine organizzative quale è oggi la Protezione civile italiana, nella sua struttura centralizzata da un lato e diffusa sul territorio, dall’altra. Ciò non di meno, e quasi paradossalmente, nonostante l’esperienza condotta in almeno una decina di casistiche diverse, negli ultimi anni, ogni volta che, superata la prima fase dell’emergenza, si discute di quello che viene dopo, sembra di ricominciare tutto da zero, come se fosse la prima volta.
Oramai dovremmo aver appreso che, per poter far rientrare coloro che l’hanno persa, nella loro casa ricostruita, occorreranno diversi anni. Non sarebbe il caso di prepararsi, sapendo che la soluzione valida in ogni circostanza è il montaggio in aree da destinare a tale scopo, e riqualificare il giorno dopo che sia stata superata tale fase, di moduli provvisori, piccoli oggetti di architettura flessibile, eventualmente anche riutilizzabili più volte, promuovendone presso il mercato la progettazione e la produzione ad imprese specializzate, eventualmente dotando le diverse Protezioni civili di una sorta di parco a disposizione per i primi interventi? Superando anche, in tal modo, le diatribe intorno alle tende, ai prefabbricati, agli alberghi requisiti, ecc.?

Cinque. Infine, la ricostruzione vera e propria. Dal Friuli, all’Umbria, all’Emilia, sappiamo che esiste un solo modello sostenibile, che è quello di ricostruire borghi e comunità nella loro integrità e identità storica (naturalmente escludendo i casi di impossibilità di reinsediare popolazioni in aree geologicamente dimostratesi incompatibili con i centri abitati). Il caso delle New Towns, dell’Aquila, partorite dalla mente di un premier legato in particolare a trascorsi ed esperienze come Milano 2, resta un buco nero nella storia dei dopo-terremoti italiani. 
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