Marechiaro, i barbari dello smartphone che nessuno vuole fermare

di Alessandro Perissinotto
Giovedì 20 Luglio 2017, 23:55 - Ultimo agg. 21 Luglio, 08:22
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C’è qualcosa di nuovo e molto di vecchio nel caso della ragazza violentata allo Scoglione di Marechairo. Di vecchio c’è il branco dei maschi, convinti che le ragazze siano qualcosa da prendere e da pretendere, che siano oggetti a disposizione del più forte, come se dal ratto delle sabine a oggi non fosse cambiato nulla.

Di vecchio c’è il senso di vergogna che pesa sulla vittima e non sui carnefici, come se lo stupro fosse ancora soltanto un reato contro l’onore e quindi, subendolo, si venisse innanzitutto disonorati. Di vecchio ci sono le raccomandazioni, i consigli, i subdoli suggerimenti di sedicenti amici e amiche che avvisano, mettono in guardia sui rischi del denunciare il fatto: non farlo, non andare dai carabinieri, non ti crederanno, ti prenderanno tutti in giro, è la tua parola contro la loro, diranno che ci stavi, diranno che li hai provocati, che l’uomo non è di legno e tu… Cosa si può ancora dire, cosa si può ancora scrivere su tutto questo? Certo, bisogna continuare a parlarne, per non abbassare la guardia, ma ad ogni parola ci coglie un senso di inutilità, di vuota ripetizione, di nausea per l’animalità che non riusciamo a sconfiggere, per uno sguardo maschile che non cambia mai: non cambia lo sguardo che gli uomini gettano sulle donne e non cambiano gli sguardi che gli uomini si scambiano tra loro. Siamo tutti pronti a scommettere che i tre ragazzini indagati dalla Procura riceveranno grandi pacche sulle spalle dai coetanei, che intercetteranno sguardi, appunto, di malcelata ammirazione. Ed ha ragione Francesco de Giovanni, presidente della Prima Municipalità di Napoli, quando parla della necessità di una repressione molto dura di questi reati; probabilmente ne ha meno quando liquida come «sociologismi da strapazzo» i tentativi di non fermarsi alla repressione stessa.


Riflettere, in termini sociologici, ma anche psicologici, su come la violenza carnale continui da millenni ad ottenere un sordido e strisciante consenso nelle comunità maschili non serve certo a diminuire le responsabilità dei colpevoli, serve semmai a prevenire altre violenze, serve a riaccendere la speranza di un mondo dove l’idea di tre maschi che sottomettono una donna i loro voleri risulti inconcepibile come praticamente inconcepibile è, nel nostro mondo, la situazione opposta, quella di tre ragazze che isolano un maschio e lo stuprano. E perché è inconcepibile? Solo per una questione di forza fisica e di anatomia? No di certo. Se le donne non usano violenza agli uomini (o, almeno, lo fanno in misura risibile) è per una questione culturale ed è a questo che servono i “sociologismi”, a farci trovare la strada verso una cultura del rispetto. Quanto questa strada sia lunga ce lo dice però quel poco di novità che questo caso porta con sé. Novità relativa, naturalmente, novità che si inserisce nel solco di quanto, negli ultimi sei o sette anni, abbiamo già commentato più volte; questa novità, rispetto a quanto avveniva nei decenni, nei secoli e perfino nei millenni passati, è che la spavalderia feroce del violentatore ha trovato nuovi mezzi per affermarsi. Da sempre, specie nei contesti rurali o nelle piccole città, gli stupratori hanno inflitto un di più di pena e di orrore alle loro vittime, schernendole, additandole al ludibrio generale, infamandole e ingiuriandole. Non ci è difficile vedere, con gli occhi del ricordo, le comitive di giovani uomini che, seduti ai tavoli all’aperto di un bar di paese, ridono al passaggio della ragazza che qualcuno di loro ha costretto a un rapporto forzato. Ma oggi quelle risate, invece di spegnersi tra i muri della piazza, continuano a risuonare in rete, amplificate a dismisura dai social. La minorenne stuprata a Marechiaro, ogni volta che va su Facebook o su Twitter vede ripetersi la violenza, vede il branco stringersi intorno a lei; un branco ben più nutrito di quello incontrato sulla spiaggia. Già, perché i social sono diventati il luogo ideale per dare manate di incoraggiamento e di stima ai balordi. Come tutti i territori dove le regole non esistono o sono ridotte al minimo, i social network sono estremamente appetibili per chi intende esercitare la legge del più forte.


La quindicenne violentata a Pimonte l’anno scorso è fuggita in Germania per evitare lo stigma dei suoi compaesani, ma ci sono cose dalle quali non si può fuggire e la rete è una di queste.
Cosa c’è di nuovo allora nel caso di Marechiaro? C’è di nuovo che essere violentata nel 2017 è più doloroso rispetto a un secolo fa; è più doloroso perché, in un universo dove tutto è evoluto, l’inumanità che ha origine nel basso ventre maschile non è mutata neppure in una sfumatura, ed è più doloroso perché chi ti ha fatto del male può continuare a farlo, a distanza di migliaia di chilometri e di anni, se non di decenni, perché dalla rete le ingiurie non scompaiono. E allora qualche “sociologismo” serve; ci serve per provare a cancellare una volta per sempre il machismo che porta alla violenza e ci serve per ottenere una diversa legislazione sui social. Se i luoghi dell’assoluta libertà di parola per chiunque diventano i luoghi della gogna per il più debole, dobbiamo avere il coraggio di accettare un’evidenza: l’essere umano, tutta quella libertà di parola non se la merita. Tutta quella libertà di parola di cui il nuovo millennio è così fiero è stata asservita ai peggiori vizi: pensavamo che le nuove tecnologie creassero una generazione di cittadini più rispettosi e invece hanno prodotto schiere di barbari con lo smartphone. Ci servono pene severe e certe per i violentatori e ci servono leggi per fermare i barbari con lo smartphone: se quelle leggi dovessero erodere un poco della libertà di espressione in rete, io non me ne rammaricherei troppo e se quelle leggi dovessero finalmente trasformare Facebook, Twitter, Youtube e compagnia bella in soggetti responsabili, senza continuare a farli dormire tranquilli nel limbo dei semplici «contenitori», sarei decisamente contento.



 
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