La strage del Paese d'argilla
non è colpa della natura matrigna

La strage del Paese d'argilla non è colpa della natura matrigna
di Oscar Giannino
Giovedì 25 Agosto 2016, 09:11 - Ultimo agg. 12:15
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Non sono i terremoti a uccidere gli uomini, ma le strutture costruite male dall’uomo. Da questa amara constatazione bisogna ripartire ogni volta che un sisma miete vittime nel nostro paese. Cioè ogni pochissimi anni, visto che siamo un Paese interessato da forti rischi sismici, regolarmente studiati e censiti dall’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia. La zona del Lazio, Umbria e Marche colpita ieri dal terremoto di magnitudo 6 rientra nella zona 1 della classificazione sismica, la più alta. Eppure, a ogni schiera di morti è come se la lezione non l’avessimo mai imparata. 

Come ha detto ieri il sismologo Massimo Cocco dell'Invg, in una zona di rischio 1 «tutti gli edifici nuovi devono essere costruiti seguendo regole adeguate, e quelli più vecchi devono essere messi in sicurezza». In questo Paese abbiamo perseguito penalmente i sismologi per non aver saputo predire il terremoto dell'Aquila in un processo che fatto ridere il mondo, ma alle cose serie documentate da decenni dalla comunità scientifica italiana no, continuiamo a non dare retta.

Oltre al dolore per le vittime e alla solidarietà per tutti i colpiti, e al massimo del sostegno a tutte le forze dello Stato e del volontariato che ieri si sono adoperate da subito nell'area a cavallo tra la provincia di Rieti e di Ascoli Piceno, la prima reazione è stata appunto quello dell'insofferenza, nel pensare che paesi del mondo interessati da analoghi rischi tellurici da decenni hanno messo in atto una vera rivoluzione nell'edilizia, mentre da noi ci si continua ad affidare al fato.

Facciamo un solo esempio, di quanto amara possa essere la conseguenza del nostro incredibile atteggiamento nazionale. Tra il 14 e il 16 aprile scorso la prefettura di Kumamoto in Giappone è stata colpita da un terrificante sciame di scosse telluriche, oltre mille, con le due punte massime a 6,2 e 7 gradi di magnitudo. La prima delle due è del tutto paragonabile a quella che ieri ha devastato Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Una magnitudo 6 equivale, nella scala Richter, all'energia sprigionata dall'esplosione entro 100 km di un milione di tonnellate di tritolo, e per capirci la bomba di Hiroshima equivaleva solo a 13mila tonnellate. Una magnitudo 7, poiché le scale sono logaritmiche, equivale invece all'esplosione di 31,6 milioni di tonnellate. 

Di scosse di magnitudo 6, come quella che ha colpito il centro Italia ieri, se ne registrano in media 120 l'anno sul nostro pianeta. Di magnitudo 7, solo 18. L'area interessata dal sisma giapponese ad aprile ha oltre 2 milioni di abitanti, di cui 800mila nel solo capoluogo Kumamoto. Eppure, malgrado l'alta densità antropica e un sisma tanto più potente di quello che ha colpito l'Italia ieri, le vittime giapponesi furono solo 49. Mentre da noi il bilancio è ancora purtroppo non definitivo, ma mentre scriviamo si parla di «almeno 159 vittime»: in un'area in cui i residenti complessivi nei diversi piccoli Comuni colpiti sono poche decine di migliaia, non milioni come in Giappone.
Eppure ieri è bastato dirlo, che dovremmo fare anche noi col nostro patrimonio edilizio quel che da decenni fanno Giappone e California, per scatenare un'ondata di riprovazione. Poi rintuzzata dal parere accreditato di geologi e sismologi, che naturalmente hanno battuto sullo stesso punto. Ma, in generale, la convinzione diffusa resta che no, noi non possiamo credere di poter fare come altri paesi, perché noi abbiamo centri storici e piccoli paesi che sono il frutto di un'evoluzione bimillenaria, mica possiamo radere al suolo e ricostruire come fanno gli altri.
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