Dario Fo, saltibanco da Nobel
Il figlio: «È stato un gran finale»

Dario Fo, saltibanco da Nobel Il figlio: «È stato un gran finale»
di Titta Fiore
Venerdì 14 Ottobre 2016, 08:24 - Ultimo agg. 23:02
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Prima di aggravarsi, dicono in ospedale, «aveva cantato per ore». E aveva chiesto ai suoi collaboratori ragazzi di leggergli le ultime notizie, curioso come sempre. Dario Fo, il giullare che seppe farsi Nobel, si è spento ieri nella sua Milano, alle prime ore del mattino. «È stato un gran finale e se n'è andato» racconta il figlio Jacopo. Proprio così, un gran finale degno di Molière, uscire di scena con una piroetta quando a Stoccolma il testimone del premio che gli fu assegnato nel 1997 tra mille polemiche passa a Bob Dylan, un altro «irregolare» della letteratura. Da un guitto-poeta a un poeta-menestrello: oggi come allora, la scelta dell'Accademia non è stata indolore, molto se n'è parlato e molto se ne parlerà.

Ma il cortocircuito culturale resta, e dice più icasticamente di parecchi saggi quanto sia profondo il cambiamento dei codici e degli stili narrativi contemporanei, quanto il corpo e la voce possano prendere il sopravvento sulla parola scritta.

Aveva compiuto da poco novant'anni, Dario Fo, «un'età folle», ma gli sembrava di non sentirla: «Ho ancora delle idee da portare avanti e sono ancora capace di indignarmi». Lavorare era la sua medicina, stare in mezzo ai giovani il suo antidoto alla malinconia. Da quando Franca Rame, la compagna amatissima di una vita, non c'era più, non si era dato un attimo di pace. Scriveva, dipingeva, recitava continuamente, metteva a posto carte e documenti per chi li avrebbe studiati, prima o poi. Al Musalab di Verona aveva deciso di lasciare in custodia i copioni, i manoscritti, i disegni, i manifesti e i costumi di scena, le tante testimonianze di una vita straordinaria condivisa fino all'ultimo respiro con la moglie attrice. Diceva di essere ateo e miscredente, ma all'amica Manin che lo provocava in un libro chiedendogli di Dio - «Esiste?» - replicava di no, «no che no esiste», però gli sarebbe piaciuto essere sorpreso del contrario. Sentiva che era arrivato il tempo di tirare le somme del suo gioco irriverente con santi e fanti. Spesso erano stati i bersagli, a volte gli interlocutori privilegiati del suo lavoro, protagonisti di quei «misteri buffi» che tanto hanno fatto per la sua carriera di saltimbanco temuto e di maestro ammirato. E proprio attingendo al prezioso patrimonio dei testi ufficiali e apocrifi, raccontando storie e personaggi riletti con graffiante ironia e umana partecipazione, rivisitando capolavori e tradizione popolare aveva esaltato i canoni della Commedia dell'arte, capace com'era di fare lo slalom tra laude e Vangeli, tra la Genesi e l'Apocalisse, tra miracoli e superstizione; di lasciarsi attraversare dal dubbio, di infiammarsi per la figura di Gesù e il suo amore «difficile, illogico, paradossale» per l'umanità; di mettere alla berlina il potere, ogni forma di potere.

Con quel corpo disarticolato, con quel linguaggio inventato e però così allusivo, così efficace, il figlio del capostazione di Monvalle innamorato del palcoscenico finisce ben presto per essere alternativo al teatro ufficiale. E Franca così bella, così altezzosa, tanto audace da «sbatterlo al muro» e baciarlo per prima, gli è sempre al fianco. Le loro critiche a tutto campo, anche sul revisionismo del Pci, diventano un simbolo della sinistra radicale, le loro prese di posizione nel teatro politico in anni di stragi e di sequestri segnano la vita culturale e sociale del Paese. Denunciare il potere e i suoi eccessi, le sue derive pericolose diventa per la coppia un dovere irrinunciabile, esplicitato talvolta in gesti clamorosi, come l'abbandono di «Canzonissima» per protestare contro la censura Rai; pagato dolorosamente, con l'aggressione vigliacca alla Rame da parte di un gruppuscolo neofascista. Diventerà, quello stupro, uno spettacolo confessione di inaudita violenza. «Franca decise di raccontarlo al pubblico una sera, prima che calasse il sipario, durò venti minuti, un flusso di coscienza straziante, io non riuscii ad ascoltarlo fino alla fine», dirà in seguito Dario. Lei lo chiamava «il mio tutto» e un giorno, stanca dei continui tradimenti, minacciò di lasciarlo in diretta tv, ospite del salotto domenicale della Carrà. Morì nel 2013, Franca, e lui non riusciva a darsene pace. Confessava con disarmante semplicità: «È un guaio terribile averla perduta e vivere senza di lei. Non basta la memoria. La sogno tutte le notti e sogno che è viva».

Attore, drammaturgo, scultore, pittore, illustratore, Dario Fo studia a Brera e al Politecnico di Milano. Dopo la guerra l'incontro con Franco Parenti lo spinge a calcare le scene del varietà, il mimo Lecoq gli insegna a usare la fisicità e ad avvalersi anche dei difetti fisici, del sorriso cavallino, dell'eccessiva magrezza. Negli anni Sessanta sfonda nella commedia («Gli arcangeli non giocano a flipper», «Chi ruba un piede è fortunato in amore», «Settimo: ruba un po' meno», «La signora è da buttare»). Imbrogli, frodi, speculazioni edilizie, antimericanismo spinto i temi su cui la coppia affonda gli strali della satira. «Mistero buffo» è un capolavoro, «Morte accidentale di un anarchico», sulla fine di Pinelli, un caso politico. Fo esce dal chiuso dei teatri e porta i suoi testi militanti tra la gente, sotto i tendoni e nei palasport, in un'osmosi di cronaca e satira che a volte dispiace al Vaticano e spesso ai partiti di governo. «Il fanfani rapito», «La marijuana della mamma è sempre più bella», «Fabulazzo osceno», «Il Papa e la strega», «Johan Padan a la discoverta de le Americhe»: la la sua popolarità è dilagante.

Il resto è storia del teatro e del costume. Con il Nobel arrivano le lauree honoris causa alla Sorbona di Parigi e alla Sapienza di Roma, arrivano innumerevoli premi, gli applausi del pubblico internazionale. Dario Fo è l'autore italiano più rappresentato all'estero, le sue commedie sono pubblicate da Einaudi in tredici volumi, la sua produzione editoriale e teatrale («Marino libero! Marino è innocente!» sul caso Sofri, «Lu santo jullare Francesco» sul poverello d'Assisi) inarrestabile.

Arrivato ai novanta, festeggiati al Piccolo con la famigliona e gli amici più cari, guardava con fanciullesca indulgenza al passato («rispetto a quando avevo 70 anni ho perso energia, ma me la cavo ancora bene») e continuava a non fare sconti a un presente popolato di «morti che camminano». Morire non gli faceva paura, abbandonarsi sì: «Abbiamo perso l'indignazione, la dignità, la coscienza, l'orgoglio di essere persone che hanno inventato la civiltà». Ed era questo, soprattutto, a sembrargli intollerabile.