Vesuvio e Anna Frank, gli ultrà liberi di odiare

di Gianfranco Teotino
Martedì 24 Ottobre 2017, 00:00 - Ultimo agg. 11:20
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A volte l’indignazione non si deve fermare neppure di fronte all’ignoranza. Sconcerta l’idea che per certi individui l’accostamento a una giovanissima vittima di violenze motivate da intolleranza razziale sia considerata una forma di offesa.

Eppure è così. L’antisemitismo degli ultrà della Lazio è talmente estremo e insensato da accompagnare i cori della vergogna – “Romanista ebreo” il più diretto – con una scenografia di manifesti razzisti e adesivi di fotomontaggi di Anna Frank vestita con la maglia della Roma, tutti appiccicati e fotografati sulle vetrate della curva dell’Olimpico. Ma lo scandalo, tutt’altro che edulcorato dal nonsense, è che stavolta, e forse non soltanto stavolta, tutto ciò poteva essere ampiamente evitato.

Quegli ultrà della Lazio domenica sera allo stadio non ci dovevano essere. Per una volta il giudice sportivo non aveva chiuso gli occhi, e le orecchie, di fronte all’evidenza. I cori contro i giocatori neri del Sassuolo avevano provocato una squalifica per due giornate della Curva Nord, quella abitualmente “governata” dal gruppo degli Irriducibili, uno dei più estremi d’Italia, già protagonista in passato, oltre che di violenze sparse, di altre esibizioni razziste e, nello specifico, anche anti-semite. Invece, applicata la legge, trovato l’inganno. Non dai colpevoli condannati, ma direttamente dalla Lazio società. Succede infatti che abitualmente il club di Lotito tenga chiusa la Curva Sud, quella dei tifosi della Roma, in occasione delle sue partite casalinghe. Incapace di riempire lo stadio, il club di Lotito preferisce risparmiare sulle spese di utilizzo e di sicurezza, come steward, pulizia, eccetera (pure questa, degli stadi che rimangono parzialmente chiusi, è un’anomalia solo italiana, ma tant’è). Ebbene, l’idea è stata quella di riaprire, nell’occasione della partita con il Cagliari, la Curva Sud, consentendo a tutti gli abbonati alla Nord, gli Irriducibili in primo luogo, di entrare egualmente allo stadio, nonostante la squalifica nei loro confronti, al prezzo simbolico di 1 euro.

Un’iniziativa tutt’altro che segreta. Eppure, nessuno, né negli uffici della Federcalcio, né in quelli della Lega di Serie A, si è preoccupato di riflettere sulla correttezza, prima ancora che sulla liceità, di questa operazione. Nessuno ha pensato di convocare i dirigenti della Lazio per discuterne con loro, per metterli in guardia dai pericoli che si sarebbero ovviamente corsi, per chiedere di fare un passo indietro, per difendere regole che dovrebbero valere per tutti. Lo stesso atteggiamento da struzzi che le istituzioni del calcio italiano prediligono, sia quando tollerano che nello stadio della Juventus vengano celebrati scudetti revocati dalla giustizia sportiva, sia quando fingono di non vedere che il signor Ferrero, dichiarato decaduto dalla stessa Federcalcio, continua regolarmente a esercitare il ruolo di presidente della Sampdoria.

Sugli episodi di domenica e l’antisemitismo degli ultrà laziali – a proposito: ma Lotito, che oggi per salvare il salvabile farà visita alla Sinagoga di Roma, non si era vantato pubblicamente di avere reciso tutti i legami con Irriducibili e dintorni? – ieri sera la Federcalcio ha annunciato che verrà aperta un’inchiesta, anzi non l’ha annunciato, ha fatto sapere informalmente che oggi il procuratore federale l’aprirà, mai una presa di posizione chiara e coraggiosa. Come al solito, si chiude la stalla, forse, quando i buoi sono già scappati. In realtà, la stalla era stata riaperta proprio dalle istituzioni calcistiche, che dopo un periodo di linea dura, con segnalazioni puntuali degli episodi da censurare e altrettanto puntuali sanzioni alle società coinvolte, da un paio d’anni avevano ricominciato a far finta di niente, a riascoltare le sirene, soltanto pseudo garantiste, dei nemici interessati non tanto del concetto di responsabilità oggettiva (che va giustamente ricalibrato per evitare punizioni che colpiscano chi non le merita), quanto dell’idea di punire i responsabili diretti, soggettivi, di episodi razzistici o violenti, e di mettere comunque le società calcistiche di fronte alle proprie responsabilità, cioè alla necessità di un loro impegno attivo contro questi fenomeni.

È così che da qualche mese l’atmosfera negli stadi è ricominciata a diventare irrespirabile. Gli ultrà si sono risentiti liberi sia in casa sia in trasferta di vomitare le loro peggiori pulsioni. I «Vesuvio lavali col fuoco», e altre schifezze, accompagnano sempre più di frequente le partite del Napoli: è successo anche sabato al San Paolo, protagonisti gli ultrà interisti, Sarri se n’è giustamente lamentato, ma è stato questo l’unico suo sfogo passato completamente sotto silenzio. I buu verso i giocatori di colore fanno ormai da colonna sonora della maggior parte delle partite, al punto che nessuno se ne accorge quasi più.

Tutto ciò, spiace dirlo, accade soltanto in Italia, fra i Paesi calcisticamente avanzati. L’Uefa ha appena aperto un procedimento disciplinare a carico della Roma per cori discriminatori di un gruppo di tifosi giallorossi, durante la partita di Champions della scorsa settimana con il Chelsea a Londra, all’indirizzo di Rudiger, ex romanista che in estate aveva avuto modo di lamentarsi, in alcune interviste, dell’eccesso di razzismo presente nel calcio italiano. Ebbene, sembra che né l’arbitro né gli ispettori delegati abbiano segnalato l’episodio nei loro referti, ma è bastato che la stampa inglese segnalasse l’accaduto per allertare l’ente calcistico europeo e indurlo a verificare subito. “No to racism” è una delle campagne sociali promosse proprio dall’Uefa: per sostenerla è stato realizzato uno spot molto riuscito con i volti e le voci dei calciatori più rappresentativi. Forse non è un caso che l’unico italiano ad apparire sia Verratti. Perché gioca in Francia.

 
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