Condanna all'ergastolo per Massimo Bossetti. E lui, per i giudici della corte d'assise di Bergamo, il responsabile dell'omicidio di Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate di Sopra. Dopo 10 ore di camera di consiglio il presidente della corte, Alessandra Bertoja, legge la sentenza di primo grado che conferma l'impianto accusatorio: è lui il responsabile del delitto aggravato dalla crudeltà e dalla minorata età della vittima. Assolto «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di calunnia nei confronti di un ex collega su cui aveva puntato il dito. Una mancata imputazione che gli vale un mini sconto di pena: l'accusa aveva chiesto anche l'isolamento diurno per sei mesi. «E una mazzata grossissima, avevo fiducia nella giustizia», le prime parole dell'imputato rivolte ai difensori. In aula è impietrito quando viene letto il verdetto che gli toglie anche la patria podestà dei suoi figli. Una sentenza che restituisce giustizia a mamma Maura e papà Fulvio.
La famiglia Gambirasio, misurata e lontana dal clamore mediatico del caso, è soddisfatta ma misurata: «E andata come doveva andare, ma questa è e resta una tragedia per tutti che non ci restituisce indietro nostra figlia». Soddisfatto il procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni. «La pena è quella prevista per una persona che commette un omicidio a cui non sono riconosciute le attenuanti» -, così come il pubblico ministero Letizia Ruggeri. E lei il magistrato che fin dal primo giorno si è «spaccata la testa» per risolvere il caso, che ha condotto un'indagine «senza pari in Italia e nel mondo» con numeri da record: oltre 118mila utenze di cui sono stati acquisiti i tabulati, più di 25mila profili genetici nelle mani di polizia scientifica e Ris per una spesa di 1,3 milioni di euro.
I giudici non credono alle parole dell'imputato. «Sarò un ingenuo, uno stupido, un ignorantone, ma non sono un assassino», dice nelle sue dichiarazioni spontanee prima di un verdetto che gli dà torto. Per i giudici è lui l'uomo che nel buio del campo di Chignolo d'Isola colpisce alla testa la 13enne, poi l'accoltella più volte alla schiena, al collo, ai polsi: ferite non mortali che, unite al freddo, la porteranno alla morte dopo una lunga agonia. Yara era sola, impaurita, incapace di chiedere aiuto, quando chi l'ha colpita le ha voltato le spalle lasciandola da sola a morire. «Se mi condannerete questo sarà il più grave errore giudiziario di questo secolo. Mi rendo conto che è difficile assolvere Bossetti, ma è molto più difficile sapere di avere condannato un innocente», dice l'imputato ai giurati prima della decisione.
«Vi imploro, vi supplico, fatemi ripetere l'esame del Dna» perché «è un errore, io non ho ucciso Yara». E la prova scientifica il «faro» dell'inchiesta contro il muratore di Mapello. Ci vorranno anni di indagini, un percorso «lungo e tortuoso», per risalire alla traccia mista sugli indumenti della 13enne il cui corpo viene trovato, il 26 febbraio 2011, in un campo abbandonato in Chignolo d'Isola. Una traccia biologica - forse sangue - trovata sugli slip e sui leggings della 13enne che appartiene alla vittima e a 'Ignoto 1'. Un'identità a cui si arriva per gradi: prima identificando il padre (Giuseppe Guerinoni di cui è stato necessario riesumare la salma), poi la madre Ester Arzuffi che ha sempre negato la relazione clandestina. Un percorso genuino: «Si è partiti da un Dna che non si conosceva» per arrivare a un uomo «nato e cresciuto in queste zone. Non sapevamo chi fosse, non era un sospettato, e ciò sgombra il campo dall'idea di voler trovare a tutti i costi un colpevole», le parole del pm nella sua requisitoria.
Risultati e reperti scientifici di cui i legali di Bossetti, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, contestano i risultati. Il Dna mitocondriale (indica la linea materna, ndr) non corrisponde all'imputato, ma quell'«anomalia non inficia il resto: solo il Dna nucleare ha valore forense», la tesi dell'accusa fatta propria dai giudici. Una prova regina cui fanno da corollario altri indizi: i passaggi del furgone davanti al centro sportivo dove si perdono le tracce della giovane ginnasta e le fibre tessili sulla vittima compatibili con la tappezzeria del suo Iveco; le sferette metalliche su Yara che rimandano al mondo dell'edilizia o l'assenza di alibi e il suo tentativo di fuga il giorno dell'arresto.
«E una sentenza già scritta: in 45 udienze, in 60 faldoni, non abbiamo trovato nessuna certezza contro Massimo Bossetti».
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