I sei mesi di Donald Trump

I sei mesi di Donald Trump
di Luca Marfé
Venerdì 21 Luglio 2017, 18:39 - Ultimo agg. 22 Luglio, 09:14
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NEW YORK - 6 mesi alla Casa Bianca e tante idee, tutte confuse. 6 mesi di ordini esecutivi, di annunci, di tweet, ovviamente. 6 mesi di gaffe, di strattoni alla stampa, di «fake news». 6 mesi di Donald Trump.

Un giorno la Storia guarderà a questo presidente e faticherà a collocarlo in questa o in quella categoria. Sarà necessario, infatti, inventarne una del tutto nuova, distante da qualsiasi precedente o tradizione a stelle e strisce.

Un volto non soltanto sfuggente alla classificazione più tipica tra democratici e repubblicani (di fatto entrambi avversari dell’attuale Commander in Chief), ma evocativo più di un personaggio da reality show televisivo che non di un presidente degli Stati Uniti d’America.

Un uomo capace di una qualsiasi affermazione, da stravolgere o addirittura contraddire soltanto un attimo dopo. Un uomo capace di mentire, senza peraltro doverne pagare conseguenza alcuna. Un uomo capace di spingere la democrazia americana fino a dei limiti estremi, tali da generare delle domande sulla tenuta della stessa democrazia.

Un presidente in grado però, e questo sì tra virgolette in chiave positiva, di tenere compatte le fila dei suoi sostenitori. A dispetto degli indici di gradimento dati ai minimi storici ma assai poco credibili considerate le fonti parziali e le sviste precedenti (Hillary Clinton era data alla testa di tutti i sondaggi fino a mezz’ora prima della vittoria del tycoon), infatti, il pubblico di The Donald non vacilla neanche dinanzi al percorso tormentato di una riforma sanitaria ancora priva di orizzonte. Né davanti all’evanescenza dell’altra grande promessa elettorale, quella di ridurre le tasse.

La verità è che i suoi supporter sono ancora lì, paradossalmente rinvigoriti dal clima aggressivo, se non addirittura isterico, che ruota attorno al leader che ha promesso loro un ritorno al passato, un’àncora di salvezza nel pantano di un disastro chiamato globalizzazione.

Ed in tal senso, non c’è Russiagate che tenga. Anzi, tutt’altro.

Ciò che avrebbe dovuto radere al suolo Trump e la sua cerchia ha finito involontariamente col consolidare un muro che non è quello concreto posto lungo il confine con il Messico, ma è quello ideale dei suoi seguaci addirittura indispettiti da uno scandalo che reputano costruito a tavolino la notte dello scorso 8 novembre.

Non è stato sufficiente, insomma, il licenziamento in tronco dell’ex numero 1 dell’Fbi James Comey, ritenuto “colpevole” di voler andare a fondo nel torbido legame tra Washington e Mosca, né lo sono stati i reiterati avvertimenti (secondo alcuni velate minacce) al ministro della Giustizia Jeff Sessions e al procuratore speciale Robert Mueller, nominato proprio per prendere in mano lo spinoso fascicolo del Russiagate.

Nel frattempo, però, durante questi primi 6 mesi della sua presidenza, Trump ha forzato protocollo e convezioni più di quanto non abbiano fatto i suoi predecessori per più di due secoli. Un atteggiamento, il suo, che rende addirittura difficile stabilire se stia perseguendo una strategia precisa o se, viceversa, semplicemente non sia troppo ferrato in fatto di poteri, limiti e per l’appunto democrazia.

Intanto continua la sua corsa, preda della necessità perenne di mantenere alti fino all’inverosimile i toni del dibattito politico. Il tutto nell’ambito di un Paese sempre più spaccato in due metà che avrebbero invece un gran bisogno di tornare a parlarsi.
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