Trump, un mese dopo: avanti tutta
su immigrazione e sicurezza

Trump, un mese dopo: avanti tutta su immigrazione e sicurezza
di Luca Marfé
Mercoledì 22 Febbraio 2017, 20:22
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NEW YORK - Donald Trump, un mese dopo. Sono tante le carte sparpagliate sulla scrivania del nuovo presidente, ma il dossier più caldo resta quello relativo all’immigrazione. Un tema complesso, delicato, legato a doppio nodo a quel “Muslim Ban” che ha gettato nel caos non soltanto aeroporti e città americane, ma anche il lavoro degli stessi addetti a dogana e confini, incapaci di comprendere inizialmente contenuti ed applicazione del discusso ordine esecutivo.

Un ordine che, proprio in queste ore, si trasforma in un progetto, in una politica vera e propria, per mano del Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti. Si tratta in buona sostanza di un severo giro di vite: 10mila uomini in più saranno assunti nelle prossime settimane tra le fila degli ufficiali americani per lavorare attorno agli 11 milioni di clandestini (stime del New York Times) presenti sul territorio statunitense. E non più, come accadeva fino a qualche mese fa sotto la guida di Barack Obama, per perseguire esclusivamente i cosiddetti crimini gravi come l'omicidio, ma anche e soprattutto per individuare ed espellere immediatamente tutti gli irregolari «residenti» negli Stati Uniti da meno di due anni.

Si va delineando uno sforzo notevole che suscita sgomento e rabbia tra coloro che vedevano il volto di Hillary Clinton profilarsi all’orizzonte di questo 2017. Una reazione particolarmente visibile nelle cosiddette «città santuario», con New York ed il sindaco De Blasio a fare da capofila, già di traverso rispetto al binario tracciato dall’amministrazione Trump.

Una reazione diametralmente opposta, viceversa, in quelle aree del Paese in cui il presidente ha vinto le elezioni dello scorso 8 novembre. Altrove, infatti, nel cuore dell’America più profonda e talvolta dimenticata, si celebra con largo anticipo la vittoria della legalità, dei piccoli imprenditori che pagano le tasse e che rifiutano di sostenere, da soli o quasi, un sistema di cui beneficiano in molti, «troppi╗ secondo alcuni. E senza contribuire in alcun modo. Insomma, diritti umani contro economia e fiscalità. Porte aperte contro chiusura e nazionalismo. E legalità.

Resta da capire cosa succederà, cosa verrà fuori dallo scontro a muso duro tra Trump e i suoi oppositori, tra le cui fila vale la pena ricordare numerosi repubblicani. Due maniere diverse di intendere il Paese. Paese che, nel frattempo, sembra essere “congelato” in attesa delle tante nomine ancora mancanti: alcune addirittura tra i piani più alti dell’amministrazione; altre, non meno importanti, nell’ambito vasto di vice-ministri, sottosegretari, ambasciatori. Con l’aggravante dell’ombra di un clientelismo strisciante tra il capo ed i suoi eventuali sottoposti.

Una delle risorse di Trump, una delle ragioni fondanti della sua vittoria, infatti, è stata l’assenza pressoché totale di un partito, essendo di fatto unoutsider a tutti gli effetti. Ma i partiti in politica servono eccome. Servono a garantire appunto una struttura, un’organizzazione, che non lasci il delicato gioco delle nomine nelle mani di simpatie ed antipatie di una certa élite o peggio ancora del singolo. Si resta in attesa, dunque. Per capire in quale direzione deciderà di muoversi l’imponente macchina a stelle e strisce tanto all’interno dei propri confini, quanto altrove nel mondo.
 
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