Siria, Corea del Nord, Afghanistan: cosa c'è dietro la svolta di Trump

Siria, Corea del Nord, Afghanistan: cosa c'è dietro la svolta di Trump
di Luca Marfé
Venerdì 14 Aprile 2017, 10:59
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NEW YORK - Prima i 59 missili Tomahawk in Siria, poi la «madre di tutte le bombe» in Afghanistan e ancora, un attimo dopo, la minaccia di un attacco preventivo alla Corea del Nord. Dei colpi di scena, ormai, s'è perso il conto da giorni. E l’era di una politica estera soft, quella firmata dal duo Obama-Kerry, è soltanto un ricordo lontano.

Scenari e nemici sono completamente diversi ora ed è necessario procedere con ordine e cautela per evitare di incappare in grossolani errori di valutazione.

Bashar al-Assad è il vero nemico giurato di questa amministrazione, anche e soprattutto perché legato a doppio nodo all’altro gigante dello scacchiere mondiale, la Russia di Vladimir Putin. Colpire il primo, dunque, per sfidare il secondo in una guerra di nervi (si spera soltanto di nervi) tesa a dimostrare che l’America c’è, è tornata. Nel caso specifico della tormentata relazione con lo “zar” di Mosca, inoltre, si aggiunge un altro elemento molto caro a Trump e ai suoi: dimostrare la falsità delle velenose e screditanti ipotesi secondo le quali sarebbe stato proprio lo zampino di Putin a consentire al tycoon di mettere piede alla Casa Bianca. Motivo di grande imbarazzo nel corso degli ultimi mesi sparito in buona sostanza dalle prime pagine dei giornali americani (e non solo) una volta lanciato il guanto di sfida. Non più la marionetta dei russi, ma l’uomo forte al comando di un fronte a stelle e strisce di nuovo e d’improvviso ricompattato sotto la grande bandiera dell’orgoglio patriottico.

Interessanti, da un punto di vista mediatico, le giravolte della stampa statunitense che sembra aver dimenticato le accuse, le prese in giro e le vignette che rimandavano al presunto flirt tra Washington e Mosca. Tutto sparito, così, di colpo. Per quanto si sia trattato di una giocata rischiosa, si è rivelato di fatto un grande successo per Trump.

La scelta di impiegare sul fronte afgano la super bomba GBU-43, la più potente testata non nucleare a disposizione del Pentagono, risponde invece a un altro tipo di esigenza: quella di lanciare un segnale inequivocabile a chi, l'Isis nello specifico, continua a non voler cedere il passo nell’ambito del più antico scenario di guerra tutt'oggi ancora aperto. Uno scontro figlio dell’11 settembre, che risale appunto al lontano 7 ottobre 2001 e che, pur avendo oscillato attorno a fasi più o meno brutali, con lo stesso Obama che aveva deciso di svuotarlo della presenza americana, di fatto è lontano dall’alba di una soluzione. Un’intimidazione, quella dettata dal vento di distruzione scatenato dall’ordigno statunitense, rivolta anche ai terroristi da cui l’America si sente quotidianamente minacciata. Altro colossale azzardo, tuttavia, se si considera che storicamente proprio ingerenze di questo tipo hanno ispirato minacce e attentati da cui le città simbolo americane dovranno tornare a guardarsi le spalle, ammesso che abbiano mai smesso di farlo.

E infine la Corea del Nord di Kim Jong-un. Dei tre, con ogni probabilità, lo scenario più delicato. E non soltanto perché a fare da sfondo all’ennesima contesa ci sia un altro colosso, la Cina, ma anche e soprattutto per il carattere imprevedibile e irascibile del dittatore nordcoreano. Dietro a ciascuna mossa di politica estera, proprio come in una partita a scacchi, c’è la valutazione di quella che potrà essere la risposta dell’avversario. Uno schema semplice, addirittura banale, che tuttavia potrebbe non avere alcun valore con Kim. Perché se è vero che Pyongyang mai potrà reggere un confronto militare con gli Stati Uniti, è altrettanto vero che al suo leader potrebbe non importare granché pur di tirare dritto per la sua strada. Una strada che potrebbe mietere vittime e danni non soltanto all’altra Corea, quella di Seul (animata peraltro dalla presenza di 28.500 soldati americani), ma anche al vicino Giappone.

Difficile se non impossibile, dunque, immaginare fin dove possa spingersi questa sorta di sconsiderato braccio di ferro. Ma Trump sembra non preoccuparsene troppo e, proprio in queste ore, minaccia addirittura un intervento preventivo nel caso in cui Kim Jong-un dovesse procedere lungo il cammino dei suoi test missilistici. Sarebbe sufficiente capire che la Corea del Nord esclude fortemente qualsiasi dietrofront perché, se davvero rinunciasse alle proprie ambizioni nucleari, tornerebbe a essere un Paese normale, piccolo piccolo, assolutamente privo di qualsiasi capacità di influenzare le dinamiche geopolitiche. Cosa che oggi, viceversa, a prescindere dalla bontà di intenzioni e azioni, di fatto può vantare, eccome.

Resta una sola domanda cui fanno capo questi tre scenari: perché?

Perché Trump era fino a un attimo fa in grossa difficoltà sul fronte della politica interna, secondo alcuni addirittura arenato. E perché, altro aspetto assai ingombrante, la macchina militare statunitense non sa e non può riposare.
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