A chi giova spaccare un paese

A chi giova spaccare un paese
di Fabio Nicolucci
Martedì 20 Settembre 2016, 09:04 - Ultimo agg. 09:28
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Il rapimento ieri in Libia di due italiani e di un canadese, operai di una società italiana di manutenzione che lavorava nell’aeroporto di Ghat, nel Fezzan, indica un doppio avvitamento della già periclitante situazione politica e militare in Libia. Finora lo scontro per il potere era avvenuto sulla direttrice orizzontale della costa tra le due entità storicamente in competizione - il Nord-Est della Cirenaica e il Nord-Ovest della Tripolitania -, mentre le turbolenze nel Sud del Fezzan sahariano erano tutte tribali e non statuali.

Ora questo triplice rapimento rischia di riaprire una fase molto simile a quella di acuta crisi che, fino alla nascita del governo di accordo nazionale, aveva fatto temere per la stessa tenuta dello Stato libico. Si tratta di una crisi che nasce da lontano, e dunque ha radici difficili da recidere. Perché il virgulto della cosiddetta «primavera libica» era già nato storto per vizio di forma al momento di vedere la luce nel 2011. In Libia l’elemento dell’intromissione di forze estere è stato infatti sin da subito molto pesante, fino a risultare preponderante. Dapprima, comprensibilmente, ha giocato una tentazione «moralistica» nei rapporti con il dittatore Gheddafi. La sua impresentabilità ha suggerito ragionamenti pragmatici, che consigliavano di disegnare una possibile e realistica alternativa interna prima di lasciarsi andare alla scorciatoia del tirannicidio.

Poi, rotto l’argine del realismo politico – una delle pagine meno brillanti dell’ex segretario di Stato Usa Hillary Clinton – l’esito paradossale è stato che da quel varco è invece passato non l’idealismo clintoniano bensì il bieco mercantilismo di alcuni stati europei, Francia e Gran Bretagna in primis. Che hanno tentato in quel modo di scippare all’Italia una invidiabile rendita di posizione sulle risorse energetiche libiche, di ottima qualità e a basso costo estrattivo, guadagnata dal nostro paese in decenni di rapporti e di lavoro.

Dopo il primo smarrimento iniziale, l’Italia ha poi saputo risalire la china. Prima legandosi all’albero del multilateralismo, evitando le sirene interessate che chiamavano Roma a un frettoloso nuovo intervento, magari giustificato dalla «lotta al terrorismo» dell’Isis, presente in forze in Libia ma certamente usato come paravento da molti degli attori regionali per altri discorsi e altri percorsi. E poi costruendo con pervicacia e visione una vera alternativa, e cioè il Governo di Accordo Nazionale, che ha così infine potuto vedere la luce nel dicembre scorso. Il percorso di questo governo è stato sin da subito pieno di trappole, piazzate da tutti coloro – e sono in molti, perché ai furbi della prima ora si sono poi uniti via via altri attori come il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia – che puntano invece alla divisione della Libia. Che il successo del Governo di Accordo nazionale ovviamente impedirebbe.

In prima fila tra questi attori vi è l’Egitto.
Che è la vera longa manus che si muove dietro il generale Khalifa Haftar, cioè il capo delle Forze Armate libiche, il residuo più consistente dell’ex esercito libico pre-rivoluzionario. Haftar proprio domenica scorsa ha compiuto un riuscito colpo di mano, prima impossessandosi dei 5 pozzi più importanti sulla costa. Poi completando politicamente il blitz militare, attraverso la cessione del controllo del petrolio all’Autorità di Stato, unico ente, insieme alla Banca Centrale, rimasto unitario e non replicato dai due ex mezzi governi di Tripoli e di Tobruk, ora in via di fusione nel nuovo governo di Serraj.
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