Bassolino: «No al congresso lampo
con la scissione tutti sconfitti»

Bassolino: «No al congresso lampo con la scissione tutti sconfitti»
di Pietro Treccagnoli
Giovedì 16 Febbraio 2017, 08:31 - Ultimo agg. 14:32
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Presidente Bassolino, come vede questa fase politica che sta dilaniando il Pd?
«Siamo in un passaggio difficile, addirittura drammatico. Tanti elettori e iscritti avvertono la gravità di questa fase. Il mio augurio è che questa preoccupazione diffusa sia presente anche nei dirigenti del partito».
I dirigenti non le sembrano sufficientemente preoccupati?
«C'è molta discussione. Discutere al proprio interno, in linea generale, è sempre un bene. Di questi tempi, se si guarda alle altre forze politiche, è persino raro. Il dibattito è un segno di vita democratica. Purtroppo, l'immagine che viene fuori da queste discussioni è quella di un partito che guarda soprattutto al proprio interno».
Si trascurano i problemi del Paese?
«Sì. Questo silenzio sui problemi del Paese è il primo ostacolo da superare. L'immagine del Pd venuta fuori dalla Direzione di lunedì è quella di un partito che sembra avvitarsi su stesso, senza una vera proiezione esterna. È dal superamento di questa contraddizione, dal mettere in primo piano i problemi del Paese che dipende anche il futuro del Pd, del nostro stare insieme, magari in un altro modo».
Secondo lei, la scissione del Pd è un rischio reale?
«È un serio rischio. Ma mi auguro che non avvenga. Bisogna fare di tutto per scongiurarlo. Sarebbe una sconfitta per il Pd e per le prospettive democratiche del Paese. Con la scissione non ci saranno né vincitori né vinti. Perderemo tutti».
Non sono quindi solo tatticismi?
«Assolutamente no. È un pericolo concreto».
Da cosa nasce questo dilaniamento, secondo lei?
«Viene da lontano, dall'accumulo di una mancata riflessione dopo una doppia sconfitta alle urne, alle Comunali e al referendum del 4 dicembre. Il voto amministrativo, con le partite perse a Roma e a Torino e con la disfatta napoletana è stato subito rimosso, non c'è stata nessuna seria analisi dal punto di vista politico e nessuna decisione dal punto di vista organizzativo. Basti pensare a Napoli dove tutto è rimasto fermo, e anzi è peggiorato, altro che lanciafiamme. Bisognava invece discutere, città per città, per affrontare e superare le deficienze locali, ma anche quelle nazionali, andando al referendum più forti, poiché già allora erano evidenti i problemi del partito e del governo».
Invece?
«Durante la campagna per le amministrative di giugno era partita quella del referendum, con la personalizzazione messa in campo da Matteo Renzi. In questo modo, la stessa battaglia per le Comunali è stata impropriamente segnata dalla vicenda referendaria e a Napoli, poi, l'impegno del premier, con la sua presenza continua, è stato tale che il candidato sembrava lui. Luigi de Magistris ha avuto gioco facile ad attaccarlo direttamente, trascurando la vera candidata».
Poteva essere un segno dell’attenzione per Napoli da parte del partito.
«In questo caso si è trattato di un’attenzione sbagliata».
Però, dopo la sconfitta referendaria ci sono state le immediate dimissioni di Renzi.
«Certo, ed è stata una scelta giusta, ma senza nessuna riflessione sulla natura della sconfitta. Renzi ha ammesso di recente di avere straperso. Ha usato parole chiare e nette, ma non ha spiegato gli errori politici e culturali di quella batosta. Questo silenzio ha pesato sull’evoluzione della vita interna del Pd. La principale sua autocritica si ridotta a una metafora: “Ho sbagliato un calcio di rigore”. Ma come un calcio di rigore?».
Troppo poco?
«È un’autocritica riduttiva. La sconfitta è anche la conseguenza di una campagna puntata sullo slogan “Basta un sì”. Troppe semplificazioni per un Paese pieno di resistenze come l’Italia. Per cambiare le cose bisogna buttare il sangue, altro che “basta un sì”. Così il Paese ha bocciato questo suo azzardo. Voleva fare del 4 dicembre lo spartiacque che ci avrebbe portato verso la Terra promessa. Per l’eterogenesi dei fini è diventato uno spartiacque in senso opposto. È cambiato tutto, ma in modo sfavorevole. Ecco dunque ora, il problema nuovo che è di fronte a tutti: Renzi non è più il dominus incontrastato del Pd e del Paese, ma resta forte ed è una risorsa importante, se ben indirizzata. Deve capirlo lui, devono capirlo i renziani che, a quanto si legge, sono divisi in undici correnti e devono capirlo le minoranze e le opposizioni interne».
Che cosa ne pensa del governo Gentiloni?
«L’Italia va governata con saggezza e coraggio: è questo che si aspettano i cittadini. Il partito ha il dovere di capire che quello di Gentiloni non è un governo amico, ma il nostro governo, il governo del Pd. Su questo non sono ammesse incertezze e ambiguità e tanto meno si può assegnare una data di scadenza preventiva al governo. I problemi dell’Italia, dentro l’enorme sommovimento che sta scuotendo il mondo, hanno la priorità. Assieme ai problemi economici e sociali da affrontare con determinazione occorre lavorare per una buona legge elettorale, seguendo il saggio invito del presidente Mattarella. Altrimenti, con le attuali norme elettorali la sera del voto non sapremo, come vorremmo io, Renzi e tanti altri esponenti politici e cittadini, chi ha vinto ma sapremo, incredibile paradosso, che non ha vinto nessuno e che l’Italia entra in una fase di instabilità e incertezza politica».
Quale dovrebbe essere la road map di questa fase del partito e che cosa si aspetta dalla prossima assemblea?
«Per me è ancora inderogabile un’adeguata riflessione politica, recuperando il tempo perduto. E da fare ora, in tutto il Paese. Perché, quando si apre formalmente il congresso, con i candidati in campo, tutto si concentrerà su di loro, ci si dividerà su tre o quattro nomi. Le candidature sono importanti, ma occorre discutere di politica e su questo punto il Pd è deficitario da troppo tempo».
In campo per la segreteria, oltre a Renzi, a questo punto ci sono Rossi, Emiliano e anche Orlando.
«Penso che debba essere proprio Renzi, con un’impegnativa relazione nell’Assemblea nazionale e con il ricco dibattito che mi auguro possa seguire, ad aprire la riflessione politica sul Comunali, sul referendum, sulle prospettive del Paese, facendo in modo da suscitare un dibattito nelle città, nei territori, nei circoli. Poi, vedremo i candidati al Congresso, ma dopo un necessario confronto sulle idee».
Walter Veltroni ha detto in un’intervista che la sinistra, di fronte al prevalere della nuova destra di Trump e Le Pen, non riesce più a capire il mondo. Che ne pensa?
«Penso che bisogna fare esattamente l’opposto del dividersi. Se la sinistra continuerà a spaccarsi si finirà davvero fuori del mondo di oggi. Abbiamo bisogno di essere di più, non di meno. Nessuna divisione, piuttosto apertura a forze nuove, a giovani che ci aiutino nell’elaborazione di politiche innovative. Abbiamo bisogno soprattutto di idee, di moderne elaborazioni sulle diseguaglianze, sulle nuove povertà, sulle moderne esclusioni, su tanti fatti che sono dietro l’avanzata della nuova destra e dietro l’affermarsi di fenomeni spesso incomprensibili che pensiamo di liquidare o di contrastare sotto l’etichetta del populismo. Invece, più la sinistra perde le connessioni con le ampie forze popolari, più diventa elitaria e più bolla come populismo ciò che non riesce a capire e a governare. Più che dentro di noi, è fuori che dobbiamo guardare. Questa è la vera sfida per una forza democratica e di sinistra». 

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L'intervento di Renzi in direzione dem