L'idea sbagliata che abbiamo dell'Europa

di Alessandro Campi
Lunedì 31 Luglio 2017, 08:38
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Nei confronti dell'Italia vige «una vergognosa mancanza di solidarietà da parte dei nostri partner europei». Detto da Romano Prodi, europeista di provata fede, si tratta di un'affermazione politicamente dura e impegnativa. Che però fotografa una situazione reale. L'Italia in effetti sta svolgendo come l'ex Presidente della Commissione europea ha scritto nel suo editoriale di ieri sul «Mattino» il ruolo assegnato alla Croce Rossa nel corso dei conflitti: fornire assistenza e aiuti umanitari restando però esclusa dalle trattative di pace e dalle decisioni politiche. Siamo i buoni: grandi riconoscimenti, belle parole nei nostri confronti, la coscienza a posto, ma nessun ruolo nei consessi internazionali che contano.

Per dirla più chiaramente è un momento in cui tutti, compresi quelli che dovrebbero essere nostri alleati e amici, sparano metaforicamente sull'Italia. Ma se ciò avviene non dipende solo dalla cattiveria altrui, ma dal fatto che siamo evidentemente un bersaglio facile, persino invitante. Siamo cioè un Paese debole politicamente, ma non solo con il quale ci si permettono comportamenti che con altri Stati non sarebbero considerati ammissibili. La questione storica è capire perché ciò accade e come siamo arrivati a questo punto. La questione politica, stimolata dall'intervento di Prodi, è come uscirne e come tornare, dunque, a far sentire la propria voce. 

Le cause della nostra attuale irrilevanza sulla scena europea e internazionale sono tante. A partire della ingenuità, al limite dell'irrealistico, con la quale continuiamo a declinare, incuranti di ciò che la storia e persino la recente attualità politica dovrebbero averci insegnato, la nostra visione dell'Europa.

Una visione sempre solidale e cooperativa, basata unicamente sulla reciprocità, sul mutuo consenso e su decisioni condivise. Non riusciamo ad accettare l'idea che al suo interno ci siano, ancora molto forti e probabilmente ineliminabili, elementi competitivi, persino conflittuali, che discendono dal fatto che gli interessi degli Stati che la compongono, per il fatto di rispondere a specificità d'ordine storico-culturale, politico, economico, persino geografico, non sempre sono compatibili. Tantomeno possono essere superati e negati nel nome di un superiore e convergente interesse europeo che non sempre esiste. Il nostro è un idealismo europeistico che rischia, ormai, di sconfinare nella stupidità. 

Più in generale, come in molti hanno scritto in questi giorni, all'Italia (segnatamente ai suoi gruppi dirigenti) manca una cultura condivisa dell'interesse nazionale. Per ottenere qualcosa bisogna volere qualcosa. Avere cioè una visione del Paese, della sua direzione di marcia come collettività, di ciò che si ritiene fondamentale o irrinunciabile, di ciò che non si può chiedere e di ciò che si deve invece pretendere nei rapporti con gli altri Stati. Gli interessi nazionali non sono oggettivi ed eterni, ma non sono nemmeno aleatori o puramente declaratori. Cambiano con la storia e le contingenze, ma hanno comunque una loro concretezza. Una volta individuati e declinati, vanno perseguiti e difesi (per carità, con strumenti pacifici per quanto possibile). Il problema è che cosa sia vitale, importante o decisivo per l'Italia nessun sa dirlo con certezza, a partire da coloro che la governano. Ne nascono così decisioni spesso improvvisate e non congruenti. Siamo sicuri, per fare un solo esempio, di aver investito tutte le nostre carte in Libia su un personaggio inconsistente come Fayez al-Serray? Qual è esattamente il nostro obiettivo in quel Paese: la stabilizzazione o un'impossibile al momento democratizzazione?

C'è poi un'altra difficoltà. Non riusciamo a capitalizzare come dovremmo le molte cose importanti (spesso encomiabili) che facciamo nel quadro dei nostri sistemi di alleanze e relazioni internazionali. Siamo in prima linea da anni nelle missioni militari, con migliaia di uomini, ma quando due nostri fucilieri di marina sono finiti in un assurdo intrigo politico-giudiziario nessuno ci è venuto in aiuto nel nostro contenzioso (peraltro ancora non concluso) con l'India. La nostra Marina salva migliaia di vite umane nel Mediterraneo, facciamo sbarcare nei nostri porti tutti gli immigrati che vengono raccolti in mare con una solerzia che sta diventando persino sospetta, ma quando proviamo a chiedere un po' di sostegno (anche solo finanziario) ci viene sbattuta la porta in faccia. Un po' ci appaga, evidentemente, il sentirci dalla parte del buono e del giusto. E, dunque, forse davvero ci bastano una pacca sulle spalle e qualche parole di elogio. Un po' non riusciamo a tradurre tutto questo impegno e questo sforzo (anche economico) sul piano diplomatico. Manchiamo di nerbo nelle trattative, non riusciamo ad essere chiari nelle nostre richieste o non abbiamo forza politica sufficiente per sostenerle?

E veniamo così al punto decisivo: con un sistema politico frammentato e rissoso, con governi deboli e privi di una solida legittimazione popolare, costretti a vivacchiare in Parlamento grazie a maggioranze rattoppate, come possiamo essere credibili e autorevoli? Non bastassero i pregiudizi che storicamente di accompagnano e con i quali, piaccia o meno, dobbiamo ancora oggi fare i conti continuano infatti a considerarci come un popolo di chiacchieroni simpaticamente inaffidabili , c'è da considerare soprattutto la condizione di oggettiva debolezza nella quale versa il nostro sistema politico-istituzionale da almeno vent'anni. Peraltro non compensato dall'esistenza, come negli altri Stati, di strutture burocratiche, di apparati tecnico-istituzionali e di un sistema economico-finanziario capaci di agire in modo unitario e convergente mossi, a loro volta, da una visione condivisa dell'interesse nazionale. 

Il problema è che il peggio potrebbe ancora venire. L'atteggiamento al limite della protervia della Francia nei nostri confronti (le interferenze diplomatiche nella crisi libica, le chiusure sulla questione dell'immigrazione, il braccio di ferro industriale sui cantieri navali acquisiti da Finmeccanica e a rischio di nazionalizzazione) sembra infatti l'antipasto di quel che potrebbe aspettarci nell'immediato futuro. Stante l'attuale legge elettorale, molti prevedono una situazione di caos o di stallo politico-istituzionale dopo le prossime elezioni politiche. A quel punto saremmo davvero un bersaglio sul quale accanirsi. A meno che, come suggerito da Prodi, non ci siano uno scatto d'orgoglio e un atto di resipiscenza politica. L'Italia, come accade ormai da alcuni mesi, non può continuare a subire passivamente solo per paura di non apparire abbastanza europeista o perché, facendo la voce grossa nelle sedi opportune, teme di trovarsi ancora più isolata. In realtà, è il contrario. Continuare a mostrarsi titubanti, remissivi e accomodanti, anche quando tutte le ragioni stanno dalla nostra parte, è solo un invito a trattarci da alleato minore o a tenerci in disparte nelle partite importanti. Abbiamo mezzi di difesa e strumenti negoziali da far valere. Facciamolo. Nel nostro interesse ma forse anche in quello dell'Europa.
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