Il futuro dei leader nelle urne

di Mauro Calise
Giovedì 1 Dicembre 2016, 08:50
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Un tempo, a giocarsi la partita, ci sarebbero stati i partiti. Schierati di qua o di là, a seconda dei propri programmi, della propria ideologia. E con i loro elettorati al seguito. Certo, anche nei vecchi referendum ci si aspettava che un po’ di votanti si mescolassero, senza rispettare rigidamente la disciplina di casacca. Ma l’indicazione di partito era chiara. E, ad urne aperte, vincitori e sconfitti si contavano secondo gli stessi schemi di un’elezione politica. Stavolta, è tutto diverso. Sul tavolo, anzi sulla lama, ci sono le teste dei leader. Sono loro che andranno su, o giù. E non necessariamente seguendo il proprio pronunciamento ufficiale a favore del Si o del No.

Prendete Silvio Berlusconi. In pubblico, si è dichiarato – ovviamente – per il No. Ma davvero gli conviene che vinca? Certo, potrebbe – forse – riaprirsi un tavolino del Nazareno, visto che per approvare in fretta e furia una nuova legge elettorale sarebbe quasi indispensabile l’appoggio dei suoi gruppi parlamentari. Ma accanto a un po’ di spazio ritrovato nei corridoi di Camera e Senato, quanto ne perderebbe sulla scena strategica del confronto coi suoi competitor all’opposizione? Il Cavaliere sa bene che, se passasse il No, il vero trionfatore sarebbe Grillo coi suoi Cinquestelle. Gli altri scomparirebbero subito. Per i media, e per l’establishment internazionale, l’unica sfida che conterebbe dopo sarebbe tra un Renzi acciaccatino e il capocomico che lancerebbe il suo assalto all’arma bianca su Palazzo Chigi. Dovesse, invece, vincere il Si, è vero che si rafforzerebbe Renzi. Ma perderebbe, al tempo stesso, di slancio quella opposizione oltranzista – e populista – che, negli ultimi anni, ha tolto peso ai moderati di Forza Italia. In definitiva, Berlusconi si trova con un piede di qua e uno di là. Non a caso – salomonicamente - ha schierato il partito da una parte, lasciando che le sue reti Mediaset tifassero apertamente per l’altra.

Per calcoli diversi, anche Salvini si ritrova più in bilico di quanto possa pubblicamente riconoscere. Per lui, è più forte la tentazione – anche umorale e caratteriale – di un risultato che metta Renzi nell’angolo. E anche se sa che Grillo sarebbe più forte nell’attribuirsi la vittoria, pensa comunque che si potrebbe aprire una prospettiva francese. Nello stato confusionale in cui precipiterebbe il paese, Salvini avrebbe buone chance di cavalcare gli umori antieuropei che crescerebbero. Soprattutto se, come molti paventano, i mercati si mettessero a ballare. Al tempo stesso, una vittoria del Si non gli farebbe perdere il sonno. Dopotutto, almeno sulla carta, il leader oggi del centrodesta è Berlusconi. Una sconfitta referendaria rimetterebbe in discussione il primato storico del Cavaliere. Creando l’opportunità per ripartire da capo, con un nuovo centrodestra. E – almeno spera Salvini – un nuovo leader.
Chi sta messo ancora meglio è Grillo. Lo showdown referendario è una manna che si è trovato inopinatamente davanti. Se perde, non cambierà nulla nello spartito degli ultimi anni. Continuerà a raccogliere scontento, e a cercare la prossima occasione in cui l’esecutivo si trovi – per colpa propria o per eventi infausti – in seria difficoltà. Il mestiere dell’antipolitica, di questi tempi, è di gran lunga il più comodo. Molto più comodo che assumersi seriamente responsabilità di governo. Grillo lo sa bene. La vittoria, certo, lo gaserebbe. E per un po’ farebbe – sui media – fuoco e fiamme. Ma, in prospettiva, si ritroverebbe a gestire una situazione complicata. Non ha i numeri per Palazzo Chigi. Ma dovrebbe comunque cercare di modificare i suoi atteggiamenti più estremisti. Una sorta di Trump due anticipato. Abbastanza per raffreddare gli entusiasmi scalmanati della prima ora.  Alla fine, sui carboni ardenti del verdetto Si/No c’è solo Renzi. Per Berlusconi, Salvini e Grillo non è una partita a senso unico. 

 
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