Il nuovo asse Parigi-Berlino mette la sordina alle critiche

di Alessandro Campi
Sabato 24 Giugno 2017, 08:29
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Non c'è processo di integrazione territoriale, politica, economica senza un soggetto che sia in grado di esercitare un ruolo egemonico. Le alleanze tra pari nella storia semplicemente non hanno mai funzionato. Nel caso dell'Europa unita, la forza trainante è sempre stata rappresentata (anche dal punto di vista simbolico) dalla Francia e dalla Germania: potenze storicamente nemiche che nel secondo dopoguerra hanno deciso di mettersi alla testa del processo di creazione di un «grande spazio» economico, culturale e sociale (non ancora militare) qual è sicuramente divenuta l'Europa nell'arco di mezzo secolo.

Negli ultimi anni vuoi la crisi economica che ha investito pesantemente anche l'economia francese, vuoi il modesto profilo politico e i crolli d'immagine all'interno dell'inquilino dell'Eliseo François Hollande quell'asse si era però incrinato. Berlino, gravata da troppe responsabilità, si è trovata ad esercitare una leadership solitaria. Il che ha contribuito non poco a risvegliare vecchi fantasmi e paure spesso irrazionali. Qualcuno ha visto aggirarsi per il continente lo spettro di un Quarto Reich sostenuto non più dalla forza militare ma da quella industriale e finanziaria. Per Paesi come l'Italia o la Spagna o la Polonia questa strana congiuntura di un'Europa non più a guida diarchica era forse l'occasione per cercare di far sentire più e meglio la propria voce, ma per ragioni diverse essi non sono riusciti in quest'intento: hanno scontato un quadro politico interno instabile e confuso che ha reso poco credibile e incisiva la loro azione europea. Quanto alla Gran Bretagna, che spesso è stata vista come polo aggregatore alternativo a quello franco-tedesco o come forza riequilibratrice rispetto allo strapotere tedesco, alla fine ha deciso di risolvere il suo ambiguo rapporto con l'Europa dividendo il proprio destino politico-esistenziale da quest'ultima.
Alle prese con una recessione economica divenuta ormai strutturale, minacciata dal risorgere del nazionalismo e dalla crescita un po' ovunque dei partiti populisti, incapace di affrontare emergenze quali la lotta al terrorismo o le ondate emigratorie dal sud del mondo, sempre meno solidale e sempre più egoista nelle scelte di politica sociale ed economica sostenute dai singoli Stati, accusata di essere divenuta un mostro freddo burocratico, costretta a vedersela oltreatlantico con un alleato ostile al multilateralismo e fautore dell'America first, l'Europa negli ultimi tempi è parsa sul punto di implodere. 

Da qui l'entusiasmo con cui è stata accolta nelle settimane scorse la vittoria di Emmanuel Macron. Un giovane tecnocrate estraneo ai giochi politici tradizionali (e a culture politiche che sembrano aver fatto il loro tempo). Ma soprattutto un europeista convinto, che al tricolore francese è parso addirittura preferire la bandiera blu a stelle dell'Unione. C'era dunque molta attesa per il Consiglio europeo terminato ieri a Bruxelles: il primo al quale ha partecipato il nuovo presidente francese. 

E in effetti qualcosa sembra essere cambiato rispetto al recente passato. Tra i capi di Stato e di governo europei riuniti nella capitale belga si è respirato, dicono le cronache, un clima nuovo. Più all'insegna dell'entusiasmo e dell'ottimismo. Più orientato al dialogo e alla collaborazione. Più costruttivo. Sennonché un conto sono i desideri spacciati per resoconti obiettivi, un conto è la realtà, quasi sempre prosaica e non di rado fonte di delusione.
Germania e Francia hanno tenuto insieme la conferenza stampa con cui ogni Paese, a beneficio delle rispettive opinioni pubbliche, conclude questo genere di summit internazionali. Nell'epoca dell'immagine ciò è bastato per sanzionare il ritorno dell'asse tra Berlino e Parigi. La loro ritrovata collaborazione deciderà il futuro del continente. Come ha detto Macron, con enfasi presidenziale, «Quand l'Allemagne et la France parlent de la même voix, l'Europe peut avancer». Per dare un senso pratico a queste parole, pare che i due Paesi si siano già spartiti le due agenzie comunitarie per i farmaci e per le banche che dovranno lasciare la Gran Bretagna a causa della Brexit.
La verità è che anche stavolta ci si è dovuti accontentare di molte promesse, di molte buone intenzioni e di qualche passettino in avanti ma tutto da verificare nei suoi effetti reali. È stata rinforzata la cooperazione militare soprattutto in materia di anti-terrorismo. Avremo dunque battle groups europei d'intervento rapido, anche se questa prospettiva di una maggiore integrazione militare prima o poi porrà il problema di quale ruolo gli europei vogliano assegnare alla Nato. Si è deciso di contrastare l'estremismo online e il proselitismo jahdista attraverso la rete, col piccolo particolare che l'industria mondiale di internet è interamente nelle mani degli Stati Uniti. Si è finalmente ammesso che la revisione dei trattati europei non costituisce più un tabù ideologico, salvo non sapere ancora come eventualmente cambiarli. Si è fatta la voce grossa con la May in materia di diritti da riconoscere ai cittadini europei residenti in Gran Bretagna, anche se non è il Consiglio europeo, come ha ricordato la Merkel, la sede dove negoziare le condizioni d'uscita dall'Europa. Si sono prolungate le sanzioni alla Russia, autolesionistiche soprattutto per l'economia di questi Paesi, come l'Italia, che tendono a rispettarle o che, più semplicemente, non hanno la forza di aggirarle come fa invece la Germania. 

Resta poi il fatto che sul tema, vitale soprattutto per il nostro Paese, del contrasto all'immigrazione illegale e delle politiche di ripartizione tra Stati dei rifugiati che arrivano attraverso le rotte marittime sulle coste italiane, non si è deciso ancora una volta un bel nulla. Salvo il generico impegno a non lasciarci soli. Ma le pacche sulle spalle di Juncker a Gentiloni sono un generico sostegno morale, non un impegno politico rispettoso degli oneri economici e dei problemi (a breve anche sociali) che l'Italia si sta accollando.

Si dice che l'Europa funziona così da sempre: col metodo dei piccoli passi, delle lente convergenze, delle decisioni che maturano dopo lunghe discussioni e trattative. In un mondo che va velocissimo (e che pare senza direzione) viene da chiedersi che sia ancora un metodo funzionale. Francia e Germania, nuovamente in sintonia, imprimeranno all'Europa un passo finalmente più veloce? Ma la vera domanda è un'altra: noi italiani quando riusciremo a farci nuovamente sentire?
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