La democrazia
senza popolo

di Mauro Calise
Lunedì 19 Marzo 2018, 08:26
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C’è una lezione da trarre dalla – ennesima – riconferma di Putin al comando della corazzata russa. Un sentimento del tempo – un suo spirito, si sarebbe detto una volta con una celebre locuzione tedesca – cha apparenta questo successo a quello di Trump in America, della Merkel in Germania, Macron in Francia, e, ancor più, all’incoronazione a vita di Xi in Cina. 
La lezione, in estrema sintesi, è che, in un mondo che cambia alla velocità della Rete, la politica può sopravvivere solo se riesce a produrre un vertice istituzionale abbastanza stabile da garantire visibilità e affidabilità. Questo nuovo triangolo del potere è la risposta – piaccia o meno – alla dissoluzione della democrazia dei partiti come l’abbiamo conosciuta per un secolo. Grandi blocchi sociali, circuiti di rappresentanza collaudati, programmi attentamente vagliati e alternativamente votati. Col suo corredo di ideologie innestate su reticoli territoriali e culturali. Questo mondo è tramontato. Scomparso. Lasciando il posto a regimi il cui perno non sono più le procedure democratiche, ma le leadership monocratiche. Con i loro nuovi canali di comunicazione e legittimazione. 
Che il mix di rete e televisione sia diventato il passaggio obbligato di ogni carriera di successo, lo abbiamo capito da un pezzo. Anche se si fa fatica a rassegnarsi alla crisi della carta stampata, col suo crollo verticale di vendite, e al fatto che i blog e i tweet che ne stanno prendendo il posto non lasciano quasi spiraglio a quell’opinione colta, dialogante che è stato per due secoli il pilastro e il sale della polis liberaldemocratica. Ci possiamo sdegnare, ribellare. Ma proprio l’esperienza italiana dimostra quanto siano velleitari i tentativi di non vedere l’evidenza. Perfino – si parva licet – l’ascesa di Di Maio e Salvini (e la brusca discesa di Renzi) sulla nostra scena politica sono innanzitutto il risultato di una gestione ingegnosa – o disastrosa – del rapporto mediatico col pubblico.
Certo, questi canali si prestano a vari tipi di manipolazioni. Le notizie sui cinquanta milioni di americani il cui profilo su Facebook sarebbe stato intercettato – e usato – da Trump per la propria campagna di sfondamento subliminale. E le indagini, ancora in corso, su quale potrebbe essere stato il ruolo degli hacker russi nell’appoggiare il tycoon americano e mettere in difficoltà la sua competitor, confermano che la realtà della rete è molto meno trasparente di quanto la sua facciata ci avesse illusi. E se questo accade nei paesi dove ancora vigono regole e autorità di controllo, figuriamoci cosa può succedere dove esistono divieti – più o meno espliciti - alla libera circolazione delle idee. Ma quale che sia il tasso di deviazione o coartazione, ciò che accomuna democrazie e autocrazie è la comune destinazione dei flussi di comunicazione. Una destinazione monocratica.
La spiegazione – purtroppo – è semplice. Rispetto ai vecchi partiti, i leader sono molto meglio attrezzati a intercettare e – cercare di – orientare le pulsioni frammentarie e volubili di elettori sempre più privi di coordinate spazio-temporali. La globalizzazione non è entrata soltanto nei nostri portafogli. Ha atomizzato le nostre identità. Cerchiamo dai nostri politici soluzioni altrettanto rapide di quelle che chiediamo a Google o ad Amazon col nostro cellulare. Prontissimi a clickare un rifiuto se la risposta che ci viene data non ci soddisfa pienamente. L’unico antidoto a questo narcisismo autoreferenziale, è che il sistema abbia una sua autonomia. Una corazza istituzionale che lo protegga dalla schizofrenia elettorale. E incanali la legittimazione popolare in alvei meno sensibili alle frenetiche fluttuazioni delle opinioni.
Non v’è dubbio che questa relazione crei un vantaggio competitivo per le nuove autocrazie nel confronto con le antiche democrazie. Uno svantaggio cui non sappiamo ancora cosa – e come – rispondere. L’unica certezza è che vanno salvaguardati, in Occidente, quei requisiti minimi di stabilità istituzionale senza i quali una democrazia è condannata – oggi molto più di ieri - a cadere in balia di se stessa. Che è proprio il rischio che corre l’Italia.
Nelle riflessioni che si affollano al capezzale della sinistra malata, colpisce il silenzio tombale – nomen omen – su questo nodo cruciale della crisi. Tutti, invece, a battersi il petto per non essere stati in grado di raccogliere i bisogni dell’elettorato. E tutti a sfoderare ricette con il linguaggio di mezzo secolo fa: riapriamo i circoli, torniamo alle radici, riscopriamo gli antichi valori. E, ciliegina sulla torta, rimescoliamoci con il popolo. Peccato che il popolo – da tutti, a parole, evocato e venerato – da un pezzo non esista più. Sarebbe popolo la galassia di individui – apolitici o antipolitici – che ruota intorno ai cinquestelle? E perché mai definire popolo il reticolo di microinteressi – aziendali o clientelari – di cui è fatto l’elettorato della Lega? E se proprio ci fosse bisogno della controprova, contassero i voti di Leu, usciti sdegnati dal Pd per andare a recuperare il popolo, il vero popolo della sinistra. Magari con la erre moscia.
La realtà è che i discorsi buonisti sul popolo smarrito servono a esorcizzare il tabù, inossidabile, della nostra sinistra. La paura dell’uomo forte. Intendiamoci bene. Non paura per il Paese e il suo destino. Paura per le oligarchie e i ceti – politici, professionali, culturali – che verrebbero ridimensionati da una figura monocratica che avesse l’autorità di un cancelliere tedesco, di un presidente americano o di un semipresidente francese. Un leader forte, non per i muscoli che mostra o per le promesse che millanta ma per le istituzioni che governa. Che restasse abbastanza a lungo al comando da poter provare a fare qualcosa. Ridando ai cittadini la speranza che la politica conti ancora. Il problema più grave dell’Italia – quello che ci staglia in negativo tra tutti i grandi paesi industriali – è che ammesso che si riuscisse a formare una maggioranza di governo, potrebbe sciogliersi tre mesi dopo. E in quei tre mesi il premier sarebbe occupato solo a cercare di tenerla in vita. Chiunque sedesse a Palazzo Chigi, sarebbe il peggiore spettacolo per l’elettore ancora in cerca d’autore.
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