«Me ne vado, forse resto, sto qui», il lungo travaglio del ribelle Emiliano

«Me ne vado, forse resto, sto qui», il lungo travaglio del ribelle Emiliano
di Paolo Mainiero
Mercoledì 22 Febbraio 2017, 09:37 - Ultimo agg. 23 Febbraio, 08:31
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Per uno che ha cominciato a fare politica da grande e che fino a 45 anni faceva tutto un altro mestiere, c’è da dire che ha imparato in fretta. Michele Emiliano non lascia il Pd, resta, condurrà all’interno del partito la sua battaglia contro Matteo Renzi. La foto di pochi giorni fa sul palco del teatro Vittoria di Roma è già storia. «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso», ha sentenziato da magistrato in aspettativa ieri in direzione, con buona pace di Roberto Speranza e Enrico Rossi, che la scissione la fanno davvero e con i quali appena domenica sera il presidente della Puglia aveva firmato una nota con cui i tre scaricavano su Renzi le colpe della rottura. 

Contrordine amici e compagni, non me ne vado. «Il Pd è casa mia e nessuno può cacciarmi», ricorda. Non scappa, Emiliano, e accetta di sfidare Renzi pur se non condivide le regole del gioco; non scappa e si candida anche se i tempi del congresso sono troppo stretti; non scappa ma resta perchè in fondo la sua storia non ha nulla a che fare con la Ditta e con la pattuglia dei Bersani e dei D’Alema. «Io sono un nativo del Pd», ricorda spesso, e a mischiarsi con i reduci dell’ex Pci in una ridotta di sinistra proprio non gli interessa. Semmai, ancora in questi giorni, mentre con una mano schiaffeggiava Renzi, con l’altra teneva a distanza indesiderate amicizie. «In Puglia sono sempre stato il principale oppositore di D’Alema e vedo che adesso mi fanno passare per il suo candidato». Meglio il Pd, allora, magari da leader della minoranza, e provare da dentro a rendere difficile la vita a Renzi e contribuire, con il pedigree di chi non è mai stato Dc né Pci a costruire un Pd libero dalle zavorre del passato.

È in campo, Emiliano. Fino al 2004 faceva il sostituto procuratore, poi gli chiesero di candidarsi a sindaco di Bari. Accettò. «Ma da indipendente». Aderì al Pd nel 2007 e ne divenne il primo segretario regionale. «Ma non ho mai fatto parte di correnti». C’è sempre un «ma» nella sua vita politica. «Quando voto qualcuno non lo sposo», è un’altra delle sue sentenze. La emise a ottobre del 2013 quando a Bari accolse Matteo Renzi, sindaco di Firenze e candidato alla segreteria del Pd. In Puglia, che era stato il regno incontrastato di D’Alema, Emiliano portò in dote a Renzi il 58 per cento dei voti. «Ma ora non si monti la testa», avvertì il barese. Parole profetiche. È finita a schifio. Come lo stesso Emiliano sentenziò, con Renzi non ci fu alcun matrimonio e quell’intesa politica si è via via sfilacciata fino a rompersi definitivamente. Fino all’abiura del governatore della Puglia che sabato scorso, davanti a Speranza e Rossi, davanti a Bersani e D’Alema, in un tripudio di bandiere rosse e di nostalgici arrivò addirittura a scusarsi di aver votato Renzi, manco fosse Al Capone o, per restare in Toscana, il mostro di Firenze. 
 


Ora c’è chi racconta che proprio quell’atmosfera troppo nostalgica al teatro Vittoria deve aver indotto Emiliano ad abbandonare la scialuppa degli scissionisti. «Speranza e Rossi sono persone perbene e di grande spessore umano», ha detto ieri il presidente della Puglia. Ma una cosa è condividere lo stesso giudizio (negativo) su Renzi, altra è tentare un’avventura al di fuori del partito in cui, a ragione, si è rivendicato di essere politicamente nati. E poi il gusto di una sfida a Renzi deve aver esercitato su Emiliano un profondo fascino. «In fondo i due sono molto simili», si racconta al Nazareno. Nascono come outsider, non provengono dalle due famiglie fondative del Pd, hanno un comune e apprezzato passato da amministratori locali. Sono ambiziosi. Sanno comunicare. Sanno usare i social. E sanno anche insultarsi, se serve. La prima vera rottura ci fu ad aprile scorso, al referendum sulle trivelle. Renzi sostenne l’astensionismo. Emiliano lo attaccò: «Renzi vive e lotta insieme alla lobby dei petrolieri». A urne aperte e a vittoria in tasca, l’allora premier si tolse il sassolino dalla scarpa: «Hanno perso quei pochi governatori che hanno cavalcato il referendum per una conta interna al Pd». Emiliano reagì: «Renzi è un venditore di pentole». Neanche la firma del patto per la Puglia smorzò le tensioni. Poi, le liti sull’Ilva di Taranto, la scelta (uno schiaffo, per Emiliano) di Renzi di preferire una finale di tennis all’inaugurazione della Fiera del Levante, le divisioni sul referendum costituzionale.

«Me ne vado, forse resto, resto».
Giorni travagliati. Sofferti. Emiliano si candida, attacca in direzione, minaccia la scissione, dialoga in assemblea, fa un nuovo passo verso l’addio, resta, si candida. 

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