Perché la scissione
può fare bene al Pd

di Biagio de Giovanni
Domenica 26 Febbraio 2017, 09:20 - Ultimo agg. 09:22
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La storia, infine, qualche ragionevolezza dentro di sé la possiede sempre, non c'è bisogno di dichiararsi storicisti per dirlo. Mi riferisco all'avvenuta scissione del Pd, preannunciata soprattutto dalle assenze di molti all'ultima assemblea del partito, e oggi resa pubblica dalla costituzione di un nuovo movimento. Infine, è giusto così. È vero che in un partito possono coesistere anime diverse, opinioni che si scontrano, e si pensi alla Dc e allo stesso «monolitico» Pci, per far gli esempi sommi. Ma anzitutto la stagione di quei grandi partiti è finita, come finita è la storia che li sorreggeva e che, nel suo stretto rapporto con una società piena di articolazioni, ne rifletteva diversità e contrasti e, oltre che rifletterle, le trasformava in politica, e in pensiero politico.

Quel tempo è finito e tutto ciò che finisce ha qualche ragione per finire, a cominciare da noi stessi, come dice il filosofo. E la storia e la politica non solo non vivono di nostalgie, ma se lo facessero non sarebbero più né storia né politica, bensì solo stanco ricordo di un tempo che fu. Peraltro c'erano tutte le ragioni perché i due grandi partiti vedessero esaurito il loro ruolo in un mondo che a ritmo vertiginoso è andato mutando i suoi caratteri e la sua storia.

E li vede ormai come due punti dissolti nell'ombra del passato. Dunque in questione non era la possibilità di tenere dentro un partito contrasti e idee diverse, ma la crisi avviene quando questo contrasto rompe ogni confine, quando non solo dentro un partito se ne forma un altro, ma cade anche la regola (minima per il funzionamento di qualsivoglia aggregazione), che, decisa che sia una cosa da una maggioranza, ad essa, nell'insieme, ci si debba attenere. Finito anche questo minimo, quale la ragione dello stare insieme? A quel punto si può perfino immaginare, con una punta di ottimismo dato lo stato delle cose, che la scissione stimoli il pensiero di chi resta e di chi va via, ciascuno, senza l'altro, dovendo rimotivare se stesso. Dunque non considero un male ciò che è avvenuto, ma piuttosto una necessità che stava dentro le cose e che diventa, forse, una occasione da non sprecare.

Sarebbe anzi importante cogliere questa occasione da parte di tutti. Da quelli che sono andati via per formare un altro movimento e da quelli, la maggioranza, che restano dentro il partito che non potrà essere più lo stesso di prima. Ognuno deve rimotivare se stesso, i fuoriusciti per dimostrare che la loro esistenza non era un semplice controcanto, il semplice polo dialettico minore di un partito assai più ampio di loro; e il nuovo Pd (sì, va usato questo termine) per mostrare come la fine di una opposizione interna distruttiva possa consentite di ripensare se stesso, il proprio ruolo nella società, il proprio pensiero sull'Italia e sull'Europa, insomma la propria cultura politica. Non fatta ora di un unanimismo che nasce dall'allontanamento di alcuni, ma da nuove dialettiche che si devono ricostituire dal profondo, come una nuova nascita.

Un compito grave per la classe dirigente del nuovo Pd, che non può rappresentarsi come quello che era sottratti coloro che sono andati via, ma se utilizza bene le leggi della dialettica - deve saper reinterpretare se stesso nella nuova situazione, anche per mostrare, alla luce degli eventi, quanto necessario fosse quello che giudico un opportuno chiarimento. Per entrare ora appena nel merito su questioni destinate, si spera, a riaprire una discussione generale in Italia, e non solo «a sinistra» (come si dice, con termine francamente un po' ridotto e sempre meno espressivo), lascio da parte, in questa occasione, di rimotivare la mia vecchia opinione sul fallimento organico che ha accompagnato la storia tutta del Pd, prodotto confuso di due culture esaurite.

La situazione nuova mette in archivio anche questo problema, e qui si parrà la nobilitade di tutti. Ora l'avvenire del nuovo Pd sta interamente nella capacità del gruppo dirigente, che uscirà dalle primarie di aprile, di saper motivare le ragioni di un partito più unito che per davvero sembri l'embrione di un partito nuovo. Se dovessi dire la mia, in una fase in cui ancora non si è aperta la discussione interna, immagino che la questione non stia nella ricerca impaurita delle attenuazioni del significato culturale e politico della divisione avvenuta; quanto di arricchire e ridefinire le analisi che hanno dato vita in questi anni a un governo e a un partito che, nella sua maggioranza, provava a lavorare in una direzione nuova, dove non era assente una visione dell'Italia e di ciò che è necessario perché essa non sia definitivamente emarginata dal concerto (pericolosamente scordato) delle stesse nazioni europee. Non stimolo, con questa osservazione, estremismi solitari, né rimotivazioni forzate di politiche sconfitte.

Ma dico: la consapevolezza in tutto il Pd e nei candidati alle primarie, ma non nascondo il carattere ironico di questa frase - dovrebbe stare nella convinzione che il compito principale non debba essere quello di riconquistare a ogni costo, e subito, il consenso di chi se ne è andato, come sembra che qualcuno pensi; ma di individuare le ragioni profonde per la rinascita di un partito spinto a rafforzare, ma per davvero a rafforzare, i motivi per i quali tutto ciò che è avvenuto in questi mesi e anche nelle ultime settimane mostri il suo significato politico. Proprio questo atteggiamento dovrebbe essere, nel Pd, alla base di una ricostruzione di sé più forte, più densa di idee, più aperta nei collegamenti con la società e con i pensieri che la attraversano. Tutto questo sperando nella provvidenza, e voglio dire sperando che i tumulti del mondo nel frattempo non si abbattano sulle nostre incertezze, sulle divisioni ultimative, su una crisi italiana che può andare oltre ogni confine anche per gli antagonismi opachi e senza fondo che attraversano la società.
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