Non si vota sulle risse
ma pensando al domani

Non si vota sulle risse ma pensando al domani
di Alessandro Barbano
Domenica 4 Dicembre 2016, 07:05 - Ultimo agg. 18:54
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Ci sono tre modi diversi, anche se in parte sovrapponibili, di guardare al referendum che oggi chiama alle urne gli italiani. Il primo identifica il voto come il mezzo per rafforzare o, piuttosto, buttare giù dalla torre Renzi. Il secondo lo considera come la leva per spostare l’asse della democrazia verso il centro o, piuttosto, verso la sua base. Il terzo lo giudica come la prova del nove sull’incidenza o, piuttosto, sull’irrilevanza che la politica ha nella vita dei cittadini. In ciascuno di noi, favorevoli, contrari e, con varie gradazioni, interessati o indifferenti, i tre angoli visuali coesistono in percentuali diverse e formano il nostro sguardo sul referendum. Ma la prevalenza di un punto di vista sugli altri due definisce una specifica categoria di elettore.

Chi vota con l’intento prevalente di difendere o di sfiduciare Renzi è attratto dal presente, in cui colloca interamente la contesa sul sì o sul no. A questo elettore sfugge la somiglianza tra la Costituzione e alcune grandi cattedrali. Sono opere la cui funzione riguarda, in prevalenza, generazioni future rispetto a quelle da cui furono progettate e realizzate. I 75 padri costituenti, che tra il 25 giugno del 1946 e il 31 gennaio del 1948 scrissero e fecero approvare la Carta, erano quasi tutti nell’ultima parte della loro esistenza: stabilirono norme e principi che avrebbero regolato la vita dei propri figli, e dei figli e dei nipoti di questi. Per quanto aspri fossero i conflitti che accompagnarono la gestazione della Carta, e per quanto forti fossero le preoccupazioni di Togliatti e De Gasperi di sbarrarsi reciprocamente la strada, alla fine l’accordo arrivò, perché si rinunciò ad ipotecare il domani all’oggi. 

Con questo non si vuol certo negare che il voto avrà un effetto sul presente. Ma il destino del governo e l’esito della legislatura sono piccola cosa rispetto alle conseguenze che la Carta, riformata o piuttosto confermata, produrrà sul futuro della democrazia italiana nei prossimi decenni. Chi va perciò alle urne pensando di usare il voto come una clava contro Renzi, o piuttosto contro Grillo, Salvini, Berlusconi e D’Alema, denuncia una miopia che gli impedisce di guardare lontano e di capire quanto può valere davvero la sua scheda elettorale.
Chi invece pensa con il referendum di cambiare il volto della democrazia e di renderla stabile e capace di decidere, o piuttosto di difenderla dalle tentazioni autoritarie e di aprirla a tutti i cittadini, è proiettato nel futuro. E in via di principio non sbaglia. Perché questa è una sfida che riguarda il futuro del Paese. Ma se crede che ci sia un rimedio di ingegneria costituzionale per guarirne tutte le piaghe e trasformarlo in un modello di efficienza, di libertà e di solidarietà, dimentica che le buone regole non bastano senza una cultura politica e civile capace di farle fruttare. L’errore anche qui contagia gli estremi: essi ignorano che, tanto dal centro quanto dalla base, la democrazia è strutturalmente imperfetta. Non a caso i più confusi e i meno persuasivi, in questa campagna referendaria, sono apparsi molti giuristi, sia del “no” che del “sì”, messi fuori gioco da un eccesso di erudizione tecnica rispetto a un deficit di cultura politica.

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