Referendum, Renzi sfida Bersani:
ha votato tre volte sì alla riforma

Renzi
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Domenica 9 Ottobre 2016, 16:21 - Ultimo agg. 10 Ottobre, 14:57
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Il frontale era inevitabile anche se i più scommettevano che sarebbe successo più a ridosso del referendum. La minoranza non crede più alle aperture di Matteo Renzi sull'Italicum e oggi  in direzione Bersani ufficializzerà di fatto il No al referendum. «Sono tre anni e mezzo che mi danno contro, l'unico obiettivo è attaccarmi ma sono loro ad aver cambiato idea sulla riforma», sbotta il premier, convinto che gli elettori non decideranno in base ai «giochini politici» e che la rottura della minoranza non provocherà un'emorragia di consensi al referendum. Convocata per ribadire l'apertura a modifiche sulla legge elettorale e per indicare gli «esploratori», vicesegretari e capigruppo, chiamati a sondare le proposte degli altri partiti, la direzione, a meno di colpi di scena, servirà, invece, a certificare la frattura nel Pd in vista del referendum.

Qualche colomba continua a consigliare a Renzi di sostanziare l'apertura con qualche proposta ma il premier non vuole rimanere impiccato a modifiche che, è convinto, sarebbero bocciate dagli altri partiti e finirebbero per offuscare una battaglia «nel merito» sulla riforma istituzionale. «Non mi si può raccontare che gli asini volano. Vediamo in direzione, ma io non mi aspetto nulla», è scettico Bersani. Mentre Roberto Speranza rompe gli indugi: «Il tempo è scaduto, io voto no». La reazione dei renziani non è con i guanti di velluto e lascia presagire che nei prossimi mesi nel Pd voleranno gli stracci. Rischiando di trasformare il referendum in un congresso anticipato del Pd che si svolgerà nel 2017. «La minoranza usa il referendum contro Renzi per una battaglia politica che si dovrebbe fare in altre sedi», attacca Dario Franceschini, il primo, insieme a Giorgio Napolitano, a chiedere a Renzi di ripensarci sull'Italicum. Il no della minoranza, alla quale si è aggiunto Ignazio Marino - è la linea dei renziani - è strumentale, mirato solo ad azzoppare il premier per tornare in pista.

«D'Alema e Marino volevano la fine del bicameralismo paritario ed il Senato delle autonomie. Chissà perchè hanno cambiato idea...», osserva Luca Lotti mentre su twitter i fedelissimi postano il programma di Ignazio Marino quando si candidò alla segreteria del Pd. Renzi vorrebbe nell'intervento di domani tenere a bada la rabbia. E rovesciare le accuse della minoranza, mettendo all'indice le incoerenze per dimostrare che la scelta del No «é solo per antipatia» verso di lui. «Bersani ha votato sì tre volte a questa riforma - osserva il leader Pd - non l'ho scritta io da solo a Rignano sull'Arno, è stata due anni e quattro giorni in Parlamento. Bersani l'ha votata 3 volte, se cambia idea ognuno si farà la sua opinione».

La colpa della rottura, sostiene il bersaniano Miguel Gotor, è solo di Renzi: «L'unità del partito è il principale compito del segretario, disatteso costantemente uno strappo dopo l'altro». Dopo aver spersonalizzato la sfida, la trappola nella quale Renzi non vuole cadere è cedere ad una campagna di scontri personali e partitici. «Dal primo giorno andai al Senato per dire che non sono qui a vivacchiare. Ora finalmente dopo 30 anni qualcuno ha fatto la riforma teorizzata da molti», è la linea del leader dem. A differenza di molti dei suoi, però - oggi Franceschini ha ipotizzato «un'Italia ingovernabile per il prossimo decennio» se vince il No - il premier, anche per rassicurare i mercati, evita gli «scenari foschi». «Se prevale il No, non cambia nulla, non arriverà la peste», va cauto il capo del governo.

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