Scotti e Iovine qual è il vantaggio e qual è il prezzo?

Sabato 10 Dicembre 2016, 08:15 - Ultimo agg. 08:45
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La richiesta dei Pm di concedere a Pasquale Scotti lo status di collaboratore di giustizia suscita le stesse perplessità che questo giornale nutrì, e manifestò, due anni fa, quando fu Antonio Iovine a rientrare nel programma di protezione accordato ai pentiti. Da Scotti i magistrati si aspettano, visto il rango criminale del personaggio, dichiarazioni in grado di gettare luce su molti dei fascicoli giudiziari arenatisi nel corso del tempo, dalla fine degli anni Settanta fino ai giorni nostri.

Ma quanto è davvero inedita la luce che può venire dalle parole di uno come Scotti, che per lunghi anni ha vissuto, da latitante, in Brasile? Naturalmente, non possiamo che augurarci che il contributo del boss si riveli determinante, come la direzione distrettuale antimafia sembra convinta. Ma non per conoscere la storia della camorra o del terrorismo, bensì per scoperchiare i delitti, l’organizzazione, gli affari criminali di oggi. Ma neppure possiamo sottacere una preoccupazione assai seria, che cioè tutto finisca come sembrerebbe essere finito il pentimento di Iovine, il quale si è rifatto una vita a spese dello Stato italiano in qualche parte del mondo, sotto copertura, senza che le sue parole abbiano impresso, almeno finora, alcuna svolta decisiva a indagini in corso.

Se infatti il nuovo pentimento servisse solo a scrivere, o a riscrivere, la storia della camorra, o a rispolverare antichi retroscena nelle relazioni tra i Servizi e il terrorismo nei primi anni ‘80, allora sarebbe legittimo domandarsi se davvero lo Stato possa rinunciare alla sua potestà punitiva, e al dovere quindi di fare giustizia fino in fondo, per ricevere in cambio qualche brandello di verità su eventi che appartengono ormai al passato, o su episodi collaterali, o su protagonisti di seconda fila del panorama criminale campano. Un conto è il pentimento che permette di squarciare il velo di qualche sancta sanctorum rimasto finora ignoto agli inquirenti; un altro è ricevere conferma e al massimo arricchire la biografia criminale di qualche esponente della camorra che magari è già in galera. Un conto è l’acquisizione di materiali probatori decisivi, per penetrare dove le indagini non possono arrivare senza rompere l’omertà dell’organizzazione; un altro è fornire una documentazione interessante solo dal punto di vista storico, o sociologico, o politico.

Se salta questa distinzione, allora il pentitismo, invece di essere uno strumento a cui lo Stato è costretto a ricorrere pur di riuscire a disarticolare sistemi criminali chiusi e impenetrabili, diviene una sorta di assicurazione per la vecchiaia e quasi un dopolavoro per qualche boss stanco e imbolsito, che sceglie a piacimento dal suo ricco bouquet di conoscenze criminali qualche fiore che può forse abbellire il quadro investigativo a disposizione dei PM, ma non più cambiarlo drasticamente. Certo, nel caso di Scotti il percorso è appena cominciato e non possiamo ancora sapere dove le sue parole condurranno gli inquirenti. Ma è bene avere presente che, per farlo parlare, lo Stato spende un mucchio di soldi e gli assicura una vita ripulita dal debito di giustizia che ammonta a trent’anni di carcere per i gravissimi delitti commessi, ormai passati in giudicato. E poiché nella gerarchia criminale alto è stato il rango di Pasquale Scotti, altrettanto elevato dovrà essere il suo contributo alla verità, e il numero di condanne che potranno essere spiccate grazie alla sua confessione.

Infine, in questa vicenda, viene a evidenza un nodo del nostro ordinamento giudiziario che si fa sempre più insolubile. Perché è scritto in Costituzione che nel nostro Paese l’azione penale è obbligatoria, e figuriamoci se, dopo il referendum del 4 dicembre, si può anche solo pensare di rivedere le scelte dei costituenti. Ma, in verità, anche prima di domenica scorsa questo principio non era all’ordine del giorno della riforma penale che galleggia da mesi al Senato. Come se funzionasse. Come se non si fosse tradotto nella più completa discrezionalità del magistrato, il quale può evidentemente, in nome dell’obbligatorietà, ambire a riscrivere qualche pezzo della storia della prima Repubblica. Il fatto è che, prima dell’art. 112 sull’esercizio obbligatorio dell’azione penale, c’è anche l’articolo 107, che impone di distinguere i magistrati fra loro solo per diversità di funzioni.

Cosicché anche il tentativo di dare una più incisiva struttura gerarchica alle procure, in grado di imporre linee di politica criminali efficaci, unitarie, proiettate sulle effettive emergenze o su reali allarmi sociali, si scontra alla fine con le garanzie di cui secondo la Costituzione gode ogni singolo magistrato, e sulla rigida difesa sindacale che la magistratura associata ne fa.
Né vi è traccia, negli atti parlamentari o nelle intenzioni dichiarate del governo o di qualche forza politica, di una vera riforma dell’ordinamento giudiziario, che provi almeno a innalzare la soglia di accountability di scelte e comportamenti del singolo magistrato. Non resta allora che confidare nella serietà del lavoro svolto dalla procura e, nel caso in questione, nella volontà di Scotti di vuotare il sacco.
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