​Senato, la riforma a tavola: da buvette a mensa self-service

Senato, la riforma a tavola: da buvette a mensa self-service
di Mario Stanganelli
Venerdì 12 Agosto 2016, 10:23 - Ultimo agg. 16:15
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Roma. Sia pure in subordine a quello sesso-potere anche il rapporto cibo-potere è sempre stato un termometro affidabile del prestigio dell'istituzione che imbandiva la tavola. E se del primo è difficile reperire banchi (o letti) di prova - se si eccettuano alcune «cene eleganti» in quel di Arcore - del secondo era senza dubbio rinomato palcoscenico il ristorante del Senato. Ma oggi la riforma renziana, destinata a tagliare i costi del «ceto politico più pagato d'Europa» con principale obiettivo la minimizzazione dell'assemblea di Palazzo Madama, sembra aver preso le mosse, o addirittura essere stata anticipata nell'abbattimento di una serie di simboli e privilegi della Casta, dalla mensa della Camere Alta.

Quello che infatti passava per il ristorante più esclusivo della Capitale, oggi appare come una, pur dignitosa, tavola calda. Dell'antico arredo sono rimaste le sedie e i lampadari e sui tavoli, dove campeggiavano immacolate tovaglie di fiandra, una tovaglietta di carta e una bustina di plastica con le posate di metallo inox al posto della pregiata posateria. Spariti i numerosi camerieri in giacca avorio e, oggi, i signori senatori, piatto in mano, fanno la fila al banco per scegliere tra un paio di primi o di secondi secondo la formula dell'all you can eat al prezzo unitario di dieci euro, bevande escluse. Certo, all'ora di pranzo dello scorso 4 agosto, ultima seduta prima della chiusura estiva appesantita dall'ambascia di dover votare da lì a poco sull'arresto del collega Caridi, non erano le mezze maniche all'amatriciana o i sedanini freddi ai calamari e neppure il pesce spada o i bocconcini di vitello, a poter mettere di buon umore i senatori scesi a mangiare al ristorante.

Vecchi camerieri e senatori di lungo corso raccontano di ben altre atmosfere quando oltre alla certezza, nutrita dai più, di potersi rivedere alla prossima legislatura, era possibile - ma qui il nesso con l'umore non è provato - vedersi servita in tavola una poderosa fiorentina o una tagliata di tonno per cinque euro. Il caffè era gratis mentre oggi per averlo bisogna salire di un piano e andare alla buvette. Una parabola quella del ristorante del Senato che, come simili decadenze che hanno accompagnato gli anni del grande riflusso, spinge a guardarsi indietro. A quel periodo delle vacche grasse che, a Palazzo Madama, durò ben più dei biblici sette anni, ma che comunque finì quando un senatore della Lega mandò sul web un menù del Senato con i relativi ed irrisori prezzi.

L'inevitabile ventata di moralizzazione portò i prezzi - fino ad allora integrati con un contributo di 35-40 euro a pasto a carico del Senato - a quintuplicarsi fulmineamente all'indomani della chiusura feriale dell'estate 2011. Con il risultato della desertificazione di quella elegante sala da pranzo che, anni dopo, spogliata degli orpelli, avrebbe, forse per le ultime volte, riunito a mensa i senatori della Repubblica.
 
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