Trasparenza,
​la fine dell'Europa

di Alessandro Campi
Giovedì 15 Febbraio 2018, 08:28
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Prima di essere un caso politico esplosivo, questa vicenda dei rimborsi (mancati o parziali) dei parlamentari grillini è un caso di cronaca penoso. Come sempre accade del resto quando ci sono in ballo i soldi e dunque quella vasta gamma di comportamenti, esemplari dell’umana debolezza, che vanno dalla furbizia all’avidità, dalla spilorceria alla meschinità. 

L’idea che questa grottesca vicenda – fatto di bonifici, scontrini, mandati di pagamento e note a pie’ di lista – sia diventata il cuore della campagna elettorale basta da sola a far capire la stranezza epocale di quest’appuntamento elettorale: non il più inutile sul piano politico, perché anzi potrebbe persino riservare qualche (amara?) sorpresa, ma certamente il più povero di idee e contenuti della storia repubblicana.

L’affaire, non essendoci comunque reati o violazioni di legge, politicamente può essere preso solo come l’inveramento tragicomico delle illusioni e delle false promesse intorno alle quali Grillo e i suoi seguaci hanno costruito il loro fragile (anche se fin qui efficace) mito politico. A partire da quella dell’onestà – assoluta, esibita e rivendicata – come suprema virtù politica e come regola di condotta, laddove per secoli ci eravamo accontentati della prudenza e della moderazione, accettando che i politici, purché capaci e fattivi, mantenessero qualche vizietto.

Ma il moralismo dilagante post-tangentopoli, unito alla fobia tipicamente illiberale e pauperistica per tutto ciò che è ricchezza, guadagno, benessere, premio o compensazione materiale per il lavoro svolto o la posizione ricoperta, insomma danaro, hanno generato la convinzione – condivisa a quanto pare da milioni di italiani che presto se ne pentiranno – che la politica democratica si possa fare a costo zero e che ogni euro guadagnato esercitando una funzione di rappresentanza o ricoprendo un qualunque ruolo governo sia un furto a danno del popolo. E dunque l’onestà come assoluto etico, come furia vendicativa travestita da irreprensibilità francescana. Che è appunto il mito che ha fatto crescere il consenso e la simpatia – come reazione alla corruzione della politica ufficiale, peraltro dilatata oltre ogni credibile limite grazie a campagne di stampa irresponsabili e suicide – nei confronti del M5S.
Ma gli uomini, anche quelli che hanno giurato fedeltà eterna ad un comico (perché ex come scrive qualcuno?) e ad una società informatica, sono quello che sono: un po’ le tentazioni, un po’ la necessità, un po’ il richiamo del buon senso, ed ecco che il volersi differenti e migliori, unici e perfetti, si è risolto, grazie ad modesto cavillo bancario, in un clamoroso boomerang mediatico. E nella messa a nudo di una macchina politico-propagandistica che per il solo fatto di dover essere governata da regole, codicilli, contratti e sistemi di controllo informatici dimostra già di basarsi non su personalità cristalline e mosse da convinzioni soggettive profonde, ma sulla coercizione dall’alto di una massa avventizia giudicata evidentemente inaffidabile da coloro stessi che la comandano. Quando si è onesti non servono certificati o forme di vigilanza coatta. E solitamente nemmeno ci se ne vanta pubblicamente. 

Ma col mito della moralità-onestà questa vicenda ha fatto cadere anche la mistica della trasparenza perfetta e a tutti i costi. Anch’essa coltivata ad arte dai grillini e presentata come un progresso della civiltà, laddove ne rappresenta invece una pericolosa deriva di stampo orwelliano. Si deve sapere tutto di tutti. Tutto deve essere accessibile a richiesta. Non debbono esserci segreti o zone d’ombra. Non esiste una sfera privata che sia intangibile soprattutto per chi svolge un ruolo pubblico. Bene, ieri qualcuno ha spiegato a Di Maio, che voleva libero accesso ai conti bancari dei suoi candidati e parlamentari (per vedere chi ha fatto il furbo e per quale cifra), che esiste ancora quella cosa scontata ma fondamentale che chiamiamo privacy. Termine inflazionato e spesso abusato ma che vuole dire una cosa semplicissima: se vuoi conoscere i miei dati sensibili devi avere il mio permesso. Ci sono dunque sfere personali e riservate, come può essere un conto corrente bancario, che non possono essere, come in questo caso, nella conoscenza diretta e immediata del capo partito. 

Anche questo episodio di ieri suona come il risvolto divertente di una vicenda politica che è appunto rivelatrice di come certi illusionismi non potessero in realtà durare a lungo. Quando ci si gioca tutto sul piano della propaganda edificante, quando ci si presenta ai cittadini in veste di vendicatori mossi dal sacro fuoco, quando si contrappone la propria purezza ideale alla sozzura del prossimo, non ci si può lamentare quando si commette il minimo errore, non tanto delle critiche alimentate dalla delusione, quanto dei lazzi e degli sberleffi che nascono dalla visione del re nudo. Non è che siamo troppo cinici e disincantati, ma nel Novecento ne abbiamo viste davvero di ogni colore. Rivoluzionari che volevano rifare il mondo dalle fondamenta e che hanno riempito di cadaveri i campi di prigionia. Questi almeno si accontentano, diciamo così, di mettere on line ogni documento o carta ufficiale, di piazzare telecamere dappertutto, di consultare i cittadini anche sulla più piccola decisione, di dare uno stipendio anche a chi non lavora e di affidare a Di Maio il governo dell’Italia. Sono anche queste divagazioni utopiche, ma almeno innocenti e non sanguinarie, per spazzare via le quali – come si sta vedendo – bastano le loro stesse goffaggini e le nostre salutari risate.
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