Verdini minaccia ma resta senza truppa

Verdini minaccia ma resta senza truppa
di Marco Conti
Martedì 13 Dicembre 2016, 09:24
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Partenza in salita per il governo Gentiloni che con la stessa maggioranza del suo predecessore, e un orizzonte non di lungo periodo, forse non poteva fare molto di più. Le opposizioni definiscono il nuovo esecutivo una sorte di Renzi-bis. Un «governo-fotocopia» che si sarebbe potuto scongiurare se l'appello al «governo di tutti» avesse avuto maggior fortuna. Oppure se al governo fosse entrato Verdini.

La prima ipotesi non ha tentato nessuno dei partiti d'opposizione mentre la seconda sarebbe stata indigeribile per il Pd renziano che si avvicina a passo veloce verso il congresso e vuole togliere alla minoranza quanto più spazio possibile. Una scelta, quella di tenere fuori Ala, che segnala una profonda sintonia tra Gentiloni e Renzi che nei tre anni di governo aveva tenuto fuori Ala dal Consiglio dei ministri. Così sarà anche questa volta, anche perché, malgrado facciano gruppo insieme, una cosa è Verdini (Ala) e una cosa Scelta Civica (Zanetti). Il tentativo fatto da Verdini - ammesso sia mai stato vero e non si puntasse a far entrare Saverio Romano - di risolvere la questione proponendo Marcello Pera o Giuliano Urbani, non risolveva il problema dell'allargamento della maggioranza che sarebbe avvenuto a dispetto delle scelte fatte dal Pd ad inizio legislatura. Né è bastata l'idea, tentata dal premier durante la sua salita al Quirinale, di risolvere le minacciose promesse dei verdiniani di non votare la fiducia, proponendo a Zanetti la delega agli Affari Regionali che è poi rimasta nelle mani di Enrico Costa.

Pochi aggiustamenti, alcuni chirurgici, che ripropongono lo stesso schema che nel 2000 si ebbe quando si passò dal secondo governo D'Alema al governo Amato che poi portò il Paese alle urne. Anche allora, come oggi, si è cambiato poco proprio perché la legislatura stava finendo e la vittoria del centrodestra di Berlusconi era data come molto probabile. Pallottoliere alla mano, il governo Gentiloni a Palazzo Madama i numeri li ha. E non solo perché il senatore Naccarato (Gal) è pronto a far scendere in campo «gli stabilizzatori». Infatti senza Verdini la maggioranza si attesta a quota 168. I più ottimisti sostengono che oggi potrebbe anche superare i 170, anche perché i verdiniani, forse più di Forza Italia, hanno il terrore delle urne. Discorso uguale si potrebbe fare per la minoranza del Pd, viste le parole di Pierluigi Bersani che ha promesso di valutare «volta per volta» quali provvedimenti votare. Senza Ala e con la sinistra del Pd sul piede di guerra anche in vista del congresso e della trattativa sulla legge elettorale, il percorso del governo e della maggioranza si fa al Senato più complicato e le richieste di numero legale fioccheranno.

Seppur la struttura resta la stessa del governo Renzi, nasce un governo fragile con l'obiettivo, che Gentiloni sottolinea, dopo aver sciolto la riserva a Sergio Mattarella, «di facilitare il lavoro delle diverse forze parlamentari volto a individuare nuove regole per la legge elettorale». Un cambio di passo rispetto a quanto sostenuto dal premier in maniera più sfumata al momento dell'accettazione. Una promessa frutto forse dei colloqui avuti con le forze politiche di maggioranza e di opposizione e dell'atteggiamento tenuto da Lega e M5S che hanno disertato l'appuntamento.

Un esecutivo che di fatto si riconferma nella linea «dell'innovazione svolta dal governo Renzi», come ha detto Gentiloni accettando l'incarico, non poteva tenere fuori Maria Elena Boschi. Un intento punitivo, nei confronti dell'ormai ex ministro che ha dato il nome alla riforma costituzionale poi bocciata, era evidentemente indigeribile per il Pd renziano che non sembra voler arretrare sulla necessità che ha il Paese di dotarsi di un sistema istituzionale più efficiente. La Boschi trasloca a Palazzo Chigi, come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, in virtù della conoscenza acquisita da ministro delle principali riforme e dei provvedimenti del precedente governo. Un cambio con Luca Lotti, che invece diventa ministro, con delega allo Sport e all'Editoria, che indica una continuità e una sintonia tra Palazzo Chigi e largo del Nazareno visibile anche nella scelta di cambiare laddove il Pd soffre di più elettoralmente. Ovvero nel mondo della scuola, storico bacino dei partiti di centrosinistra, e nel Mezzogiorno che da ieri ha un ministro tutto suo (De Vincenti).